La lettera di Zhanxing Xu, seconda generazione. "Non devo tingermi di verde, bianco e rosso per sventolare ciò che sono"
Roma – 2 settembre 2010 – Zhanxing Xu ha quasi ventidue anni e vive in Italia da quando ne aveva dieci. Cresciuta a Follonica, in provincia di Grosseto, studia lingue all’università di Roma. Una giovane italiana, che la legge si ostina a considerare ancora cinese, in attesa del riconoscimento della cittadinanza. Qualche giorno fa ha scritto una lettera al Questore, eccola:
Egregio Signor Questore,
Ho appena parlato al telefono con Lei e mi sento come ogni volta stordita, risvegliata da un lungo abbaglio. Mi sono ricordata che ho richiesto la cittadinanza ormai un anno fa e mi sono ricordata anche che sono ancora straniera nel paese dove sono cresciuta. Come dopo ogni chiacchierata con la questura, dopo ogni seduta e dopo ogni “sentenza” sul mio “oggi” e sul mio “domani” mi sento triste. Piango perché non conosco altri modi per sopravvivere all’insofferenza che ho accumulato in questi anni. Piango perché questa odissea burocratica sembra non finire mai. Piango e piango ancora. Forse a Lei suonerà esagerato, ma io posso assicurarLe che non lo è.
Mesi fa ero nel suo ufficio, seduta di fronte a Lei, abbiamo parlato un po’. Lei mi ha fatto delle domande e io ho risposto. Lei voleva testare la mia persona e quanto fossi “ italiana” ma io in quel momento mi sono sentita straniera più che mai. Eravamo come due rette parallele che non s’incontrano mai: era un Lei ed io che non riuscivano a congiungersi in un NOI.
Ero molto agitata e cercavo di rispondere il più possibile “bene” alle Sue domande ma varcando la soglia dell’uscita mi sono sentita stupida. Cosa rappresentava questo “bene”? Per me era dimostrarle quanto ero italiana: dirLe che vado matta per la pasta, che la domenica vado allo stadio e che tifo l’Italia ai mondiali. Io non faccio nessuna di queste cose. Io amo il riso e non sono una tifosa. Nonostante ciò l’italianità è insita in me. Basta osservarmi, osservare il mio abbigliamento, il mio modo di parlare, i miei gesti. Basta veramente poco. Non ho bisogno di tingermi di verde, bianco e rosso per sventolare ciò che sono, non è necessario riempirsi la bocca di grandi aforismi quando non si è capaci di onorarli.
Si ricorda della pila di carte che mi ha mostrato sul tavolo quando sono venuta da Lei? Lei aveva davanti la mia storia: dai miei 13 anni fino ai miei 21 anni, ovvero fino ad oggi. Lei sa tutto di me, ogni singola cosa. Per lei, forse, erano solo fogli imbrattati di dati, ma per me significano un’intera esistenza. Mi hanno ricordato la mia adolescenza vissuta tra gli incubi degli uffici. Mi hanno ricordato delle impronte digitali rilevate quando avevo appena 16 anni come fossi una criminale. Mi hanno ricordato del concorso a cui non ho potuto partecipare durante il liceo perché riservato solo agli italiani. Mi hanno ricordato che sono esclusa anche dai progetti “Erasmus” all’Università. Mi hanno ricordato che studio lingue e che devo viaggiare ma non sempre ci riesco per motivi burocratici. Mi hanno ricordato che a 18 anni non ho ricevuto nessuna tessera elettorale. Mi hanno ricordato, infine, che il mio permesso di soggiorno scade ad aprile 2011 e dovrò ricominciare nuovamente la trafila di documenti da presentare.
Non è facile vivere una vita così, una vita alla rincorsa di un pezzo di foglio che decide se posso ancora restare nel paese dove mi sono formata, nel paese nella cui lingua riesco ad esprimermi completamente, nel paese in cui ho i miei affetti e nell’unico paese dove mi sento a casa. Già, non è facile sentirsi rifiutati e rigettati dallo stato che invece ti dovrebbe proteggere.
Esattamente 2 anni fa, al termine della maturità depositai la mia tesina presso gli uffici della Questura. Lì avevo racchiuso la storia di un’intera generazione che sta crescendo e che continua ad aumentare, una generazione di ragazzi, figli d’immigrati che lottano per avere gli stessi diritti dei loro coetanei perché sono anche loro italiani. Speravo che tante persone dedicassero un attimo del loro tempo per guardarsi intorno e accorgersi che noi ci siamo e che qualcosa sta cambiando ed invece troppi ci combattono e non vedono altro che una minaccia in noi.
Mi ha fatto terribilmente male sentire la risposta di uno degli ispettori la scorsa volta quando chiamai, il quale mi disse sgarbatamente che non aveva tempo per ascoltarmi e così come le risate e le battutine sciocche sul mio nome quando il collega Le ha passato il telefono, questa volta. Sono cose che fanno male, che feriscono nel profondo e che lasciano dei segni indelebili. Io non pretendo la comprensione e nemmeno che gli altri entrino nei miei panni perché abbiamo sensibilità e vissuti differenti ma pretendo il rispetto per la mia persona. Sempre.
Ho voluto condividere alcuni pensieri e spezzoni di vita con Lei perché credo che il rispetto, il dialogo e la reciproca fiducia siano alla base di ogni società civile. Intanto continuo a studiare e a impegnarmi per poter un giorno contribuire a migliorare il mio paese come Le ho detto durante il colloquio, perché io non lo voglio abbandonare!
Zhanxing Xu