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“Senza sostanze non posso lavorare”. Il doping degli schiavi nei campi

Tra i braccianti indiani sikh dell’Agro Pontino  si diffonde l'uso di stupefacenti e antidolorifici per reggere i ritmi disumani imposti dagli sfruttatori. Le testimonianze raccolte da In Migrazione

Roma -16 maggio 2014 – Più che schiavi della droga, sono schiavi con la droga.

È la condizione di molti indiani sikh impiegati nei campi dell’agro Pontino, in provincia di Latina, non lontano dalla Capitale. Piegati per dodici ore al giorno sotto il sole, a seminare, piantare e poi raccogliere ortaggi che finiscono sulle tavole degli italiani, pagati, nella migliore delle ipotesi, quattro euro all’ora.

Per sostenere quei ritmi, per non perdere quello che questi immigrati provenienti dal Punjab considerano lavoro e che la stragrande maggioranza degli italiani chiama col suo vero nome, schiavitù, si assumono stupefacenti e antidolorifici, violando anche la severa religione sikh, che non ammette neppure le sigarette. Un doping lontano dalle cronache sportive, che non frutta medaglie, ma paghe da fame.

A scoperchiare un aspetto finora poco conosciuto dello sfruttamento nei campi è In Migrazione, onlus che ha raccolto in un dossier decine di testimonianze, lasciandole, per consegnarle in tutta la loro drammatica veridicità, nello sgrammatico italiano in cui sono state affidate agli operatori dell’associazione.

“Noi sfruttati e non possiamo dire a padrone ora basta, perché lui manda via. Allora alcuni indiani pagano per piccola sostanza per non sentire dolore a braccia, a gambe e schiena. Padrone dice lavora ancora, lavora, lavora, forza, forza, e dopo 14 ore di lavoro nei campi come possibile lavorare ancora? In campagna per raccolta zucchine indiani lavorano piegati tutto il giorno in ginocchio. No possibile e sostanza aiuta loro per vivere e lavorare meglio” racconta, per esempio, K. Singh (il cognome accomuna tutti i maschi sikh).

“Io vergogno troppo perché mia religione dice no questo. No buono per sikh. È vietato da nostra bibbia. Ma padrone dice sempre lavora e io senza sostanze no posso lavorare da 6 di mattino alle 18 con una pausa solo a lavoro. Io so che no giusto ma io ho bisogno di soldi. Senza soldi io no vivo in Italia. Tu riusciresti? Tu mai lavorato in campagna per 15 ore al giorno?” chiede L. Singh.

Lo spaccio di queste sostanze è gestito, al dettaglio, da altri indiani. Ma il traffico, spiega In Migrazione, “è saldamente in mano a italiani senza scrupoli e spregiudicati variamente organizzati con collegamenti, probabilmente, anche all’estero”.

"Conosco sì persone che prendono sostanza. Prendono da italiani che vendono loro e loro o danno a amici e prendono quando lavorano come thè. Capisci? Mettono in acqua calda e poi prendono. Si può anche mangiare ma fa più male. Male a stomaco, a gola. Sono soprattutto giovani. Vecchi come me no prendono sostanza perché io so che Dio no vuole e che no è buono” racconta H. Singh.

“Se per alcuni braccianti doparsi è una necessità di sopravvivenza, questa pratica rischia di lasciare profonde cicatrici in una comunità che nel rispetto delle tradizioni e della propria filosofia di vita fonda le sue radici e la sua stessa identità. Una vergogna che rischia di isolare chi cade in una sorta di dipendenza” si legge nel dossier. Allo sfruttamento, alla dipendenza da queste sostanze, si unisce così l’emarginazione da quella stessa comunità che per tanti rappresenta invece l’ultima rete di solidarietà e conforto.

I sikh dell’Agro Pontino chiedono aiuto alle istituzioni, e plaudono alle iniziative antidroga delle forze dell’ordine, come l’arresto, avvenuto alla fine di gennaio, di alcuni connazionali e il sequestro di 10 chili di capsule d’oppio. Chiedono però che finiscano in manette anche i trafficanti italiani e che si debelli la causa prima di questa piaga: lo sfruttamento.  

“Carabinieri portato via indiani ed è giusto – dice P. Singh – però anche italiano altrimenti italiani trova altri poveri indiani e tutto uguale prima. Vero problema è che padrone no paga bene indiano, Indiano allora povero, senza soldi da mandare in India e poi troppo fatica per lavorare in agricoltura a raccogliere cocomeri, poi zucchine, poi pomodoro e poi prende droga per non stancare”.

“E’ evidente come in Provincia di Latina sia prioritaria un’azione decisa di controllo del territorio e di repressione dei reati connessi allo sfruttamento dei braccianti” chiede In Migrazione, secondo cui bisognerebbe partire da un aumento delle ispezioni. Alle azioni repressive, devono però accompagnarsi misure di integrazione, capaci di rompere l’isolamento dei sikh, come corsi di italiano alla conoscenza e alla fruizione dei servizi senitari, angrafici e sociali.

“Contrasto dell’illegalità e dello sfruttamento sul lavoro, servizi territoriali per l’inclusione sociale, agricoltura competitiva che si basi sulla qualità dei prodotti unita al rispetto dei diritti umani, lotta alle eco-mafie e alle varie frodi alimentari: questi gli elementi ineludibili da coordinare – conclude il dossier di In Migrazione – per cambiare le condizioni di vita dei braccianti sikh dell’Agro pontino, per sanare una ferita sociale e culturale incompatibile con un Paese come l’Italia”.

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In Migrazione Onlus. 2014 – DOPARSI PER LAVORARE COME SCHIAVI

EP
 

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