Roma, 16 giugno 2025 – Quarant’anni fa, sulle tranquille acque della Mosella, l’Europa prese una boccata di futuro. Il 14 giugno 1985, a bordo del battello Princess Marie-Astrid, cinque nazioni — Germania Ovest, Francia, Belgio, Paesi Bassi e Lussemburgo — firmarono un patto destinato a rivoluzionare il continente: la Convenzione di Schengen. Non fu solo un trattato, ma un gesto simbolico di fiducia reciproca, una promessa di libertà che avrebbe abbattuto le barriere tra i popoli senza sparare un solo colpo.
L’Europa del possibile
In quel piccolo centro del Lussemburgo, ignaro testimone di un’epoca che stava cambiando pelle, nacque il sogno di un’Europa senza frontiere. Un’Europa dove le persone, e non solo le merci, potessero attraversare i confini con la naturalezza di un respiro. Con il tempo, Schengen ha visto crescere la sua famiglia fino a 29 Paesi, due in più dell’Unione stessa. Non era solo un trattato: era l’Europa che imparava a fidarsi di sé.
Per milioni di cittadini, Schengen ha significato libertà concreta: niente più code ai valichi, controlli doganali ridotti a memoria storica, aeroporti in cui la parola Europa non era solo un’idea, ma una realtà vissuta. In parallelo, la cooperazione tra Stati si rafforzava nella lotta alla criminalità, nel controllo delle frontiere esterne, nel tentativo di bilanciare apertura e sicurezza.
Le crepe dell’incertezza
Ma oggi, a quarant’anni di distanza, il sogno vacilla. Le celebrazioni sono state timide, quasi vergognose. Un tweet del presidente Macron, poche parole di circostanza da parte dei commissari europei Henna Virkkunen e Magnus Brunner, e un silenzio che pesa più di mille proclami. La presidente Ursula von der Leyen, simbolo della Commissione europea, ha preferito non esserci. E il Partito Popolare Europeo, anziché celebrare la libertà di circolazione, ha ricordato che “Schengen significa libertà di movimento, non libertà di ingresso”. Come a dire: la porta è aperta, ma solo per chi ha già le chiavi.
Negli ultimi anni, soprattutto dopo il 2022, lo Spazio Schengen è stato sospeso decine di volte, ufficialmente per motivi di sicurezza. A oggi, si contano quasi 400 deroghe temporanee. Alcune per far fronte a emergenze sanitarie, come la pandemia. Altre per proteggere obiettivi sensibili dopo il 7 ottobre 2023. Ma sempre più spesso, il vero movente è politico: la paura del migrante, il vento dell’estrema destra che soffia sulle frontiere, la tentazione sovranista di richiudersi.
Il sogno sotto assedio
Persino il ministro italiano Matteo Salvini ha invocato l’abolizione di Schengen, colpendo al cuore uno dei simboli più alti dell’Europa integrata. Così, il patto che una volta ci sembrava intoccabile ora vacilla sotto i colpi della retorica del sospetto, dell’identità difesa a colpi di confine, della sicurezza brandita come scusa per l’esclusione.
Eppure, come ha ricordato Virkkunen sulle rive della Mosella, “Schengen è più di una politica: è una testimonianza del nostro impegno per la libertà, la sicurezza e la giustizia”. O forse, per dirla con più verità, Schengen era tutto questo. Oggi è un’idea da difendere, una visione che ha bisogno di nuova linfa, di coraggio politico e immaginazione.
Una porta socchiusa sull’avvenire
Schengen compie quarant’anni, ma non li festeggia. È come un anniversario di matrimonio in crisi: ci si guarda, si ricordano i bei tempi, ma si teme che il domani possa portare il divorzio. Eppure, proprio perché il sogno sta sbiadendo, oggi è il momento di rilanciarlo. Perché un’Europa senza muri non è solo più giusta, è anche più forte. Perché l’assenza di frontiere, quando accompagnata da solidarietà e intelligenza, non è una debolezza: è un faro.
L’Europa ha scritto la sua storia più bella sulle acque di un fiume. Forse è tempo di tornare a navigare.