Roma, 24 gennaio 2025 – L’immagine crudele di una fila di migranti ammanettati e costretti in catene, caricati su un aereo militare come fossero merci prive di dignità umana, segna un capitolo di vergognosa violenza nella storia dell’immigrazione statunitense. È sconvolgente che un Paese costruito sull’idea – per quanto spesso contraddetta dai fatti – di essere “terra di opportunità” si macchi ancora una volta di una brutalità così manifesta. Eppure, la Casa Bianca festeggia la propria forza repressiva come se fosse un trionfo, con toni roboanti di propaganda: “Promessa fatta, promessa mantenuta”.
Ma questa non è la dimostrazione di autorevolezza politica né di integrità morale. È piuttosto la messa in scena di una logica razzista che incita all’odio e alla divisione. Il presidente Trump ha sempre cavalcato la retorica contro i migranti, descrivendoli come “invasori” o “criminali”. Ora, la sua amministrazione celebra l’espulsione di centinaia di persone con un’esaltazione che tradisce un’ideologia disumana e becera.
Le immagini diffuse sui social, e la soddisfazione ostentata dalla portavoce Karoline Leavitt, dipingono un quadro di repressiva barbarie, non di giustizia. Vi è infatti una sostanziale differenza tra il rispetto delle leggi e l’esaltazione della forza bruta, tra la tutela di un Paese e la trasformazione dei migranti in capri espiatori di tutti i mali. L’utilizzo di aerei militari e catene come simboli di “deterrenza” non solo tradisce la narrativa ufficiale, ma sembra volutamente richiamare cupe atmosfere degne di regimi autoritari.
Parlare di “gravi conseguenze” per chi entra irregolarmente – senza alcun distinguo tra chi fugge da guerre, povertà estrema o persecuzioni e chi effettivamente abbia commesso reati – trascina l’intero discorso sul terreno della discriminazione. Un governo che afferma di voler proteggere il proprio popolo dovrebbe farlo con misure sensate e umane, non con eventi mediatici pensati per coltivare rancore e paura.
Risulta ancor più ipocrita la retorica della “terra dei liberi e casa dei coraggiosi”, quando la stessa amministrazione condanna chi cerca speranza oltre confine a una punizione esemplare, con tanto di post celebrativi sui social. Mettere in scena deportazioni di massa con toni trionfalistici non è segno di efficienza: è dimostrazione di come la propaganda possa diventare la principale voce di un governo.
Dietro le catene e i titoli strillati ci sono storie di uomini, donne e talvolta bambini in fuga. Da troppo tempo si tendono a semplificare le storie di migrazione, relegandole alla fredda etichetta di “illegali”. È una visione che nega la complessità umana e sociale che anima i flussi migratori. Non si tratta di negare la necessità di regole, bensì di denunciare politiche che usano la sofferenza come strumento di consenso elettorale.
Le deportazioni, presentate come un trofeo, non sono la risposta per “rendere l’America più sicura”. Al contrario, isolano il Paese, alimentano disprezzo e creano solchi con il resto del mondo. Spetta alla stampa e all’opinione pubblica prendere atto di questa deriva: ciò che oggi avviene al confine e sulle piste militari potrebbe segnare un pericoloso precedente, in cui la guerra contro lo straniero si trasforma nel fondamento di un rancore istituzionalizzato.
L’arresto di 538 migranti, descritto come una sorta di resa dei conti, è solo l’ennesimo tassello di una politica disumana, la cui retorica ci dovrebbe far inorridire. Non c’è nulla da festeggiare in quelle scene, nulla di cui “andare fieri”. Sono scene di disperazione, di famiglie spezzate, di sofferenza che si trasforma in propaganda. Di fronte a questo, la nostra indignazione deve essere forte, decisa e senza compromessi. Perché la storia non perdona chi si compiace dell’umiliazione e del dolore altrui. E non lo dobbiamo perdonare neanche noi.