di Mihai Mircea Butcovan
Mio marito è partito un giorno di primavera di due anni fa… Che faccio ora con questa lettera? La leggo o non la leggo ai miei figli?
Quando mi ha detto «io parto» ho pensato che avesse ragione. Era meglio così. Da quando avevano chiuso la fabbrica lui non dormiva più. Si girava e rigirava nel letto, poi si svegliava alle cinque del mattino, come sempre, andava al computer, faceva le sue ricerche, mandava curriculum alle multinazionali. La fabbrica aveva chiuso e mio marito, ingegnere sì o no, era rimasto a spasso. Aveva sempre detto, vedendo altri che andavano all’estero a cercare fortuna: «Servono ingegneri anche qui. Se tutti andassimo via qui non costruirebbe più nessuno il nostro paese». Ma ora non servivano più, nemmeno gli ingegneri, non nella nostra città. Quattro anni fa abbiamo visto il suo ex collega Paul rientrare dall’Italia, dopo sei mesi, con una macchina. E al bar Paul pagava da bere a tutti. In effetti Paul aveva fatto fortuna. La moglie di Paul ha cambiato negli ultimi anni guardaroba e parrucchiere. Però era strano, Paul diceva di lavorare duro in un cantiere ma non aveva calli sulle mani, gliele ho viste bene io le mani.
Allora mio marito ha detto un giorno di primavera di due anni fa: «Parto anch’io. Che futuro vuoi dare qui ai nostri figli? Non sono buono a fare il disonesto». Così diceva mio marito nella primavera di due anni fa. Dicevano in molti che in Italia c’era lavoro, si guadagnava bene, e qualcosa portavi a casa comunque. Dicevano che lì potevi guadagnare cinque volte di più, abbiamo fatto i conti, nostro figlio avrebbe fatto l’università…
E nella primavera di due anni fa mio marito è partito. È partito con un prestito, ci siamo indebitati, servivano i soldi per il viaggio e per le prime due settimane. Ma avevamo fatto i conti. In due mesi avrebbe recuperato tutto. Dopo due giorni mi ha telefonato, voleva tornare a casa, diceva che le cose non stavano così come le aveva raccontate Paul. Dopo due mesi non aveva mandato a casa niente. Ma poi ha trovato lavoro nei cantieri, ha cominciato a mandare a casa qualcosina. I primi quattro mesi di stipendio sono serviti per saldare il debito con Paul. In due anni abbiamo rifatto il bagno e cambiato la cucina. A Natale mio marito è tornato col treno, «la macchina» ha detto «la compro più avanti, per ora non ci serve, né lì né qui».
Mio marito è partito un giorno di primavera di due anni fa… Che faccio ora con questa lettera? La leggo o non la leggo ai miei figli?
Mio padre è partito un giorno di maggio di due anni fa… mia madre è ora lì, con la lettera di papà in mano, come a dire «la leggo o non la leggo ai miei figli?» Mio padre è partito un giorno di maggio. Pochi giorni prima avevano festeggiato la… festa dei lavoratori. Come sempre tutti al picnic, birra e salsicce, grigliate e partite di bocce. Ma quell’anno il papà era senza lavoro, avevano chiuso la fabbrica. Io volevo studiare da ingegnere, come lui, ma poi se devi fare il disoccupato e non dormire di notte… Birre e salsicce, cosa c’era da festeggiare? «Le conquiste operaie» dicevano alla radio…
Mia madre è lì, con la lettera in mano, ha lo sguardo perso, come se l’avesse lasciata, magari si è messo con un’altra più giovane, succede, ne abbiamo sentite di storie raccontate da quelli che tornano dall’Italia…
Mio padre è partito un giorno di maggio di due anni fa… M’aveva detto che era per il nostro bene, per il nostro futuro. «Vuoi studiare da grande?» mi chiedeva mettendomi la mano sulla testa. «Se vuoi diventare ingegnere devi andare all’università. Allora dobbiamo fare qualche sacrificio. Qui ormai non c’è molto da sperare, io non vedo altra strada…»
È lì, la mamma, con la lettera di papà in mano, come a dire «la leggo o non la leggo ai miei figli?» ed io ho visto una lacrima anche se per togliersela si è voltata verso la finestra fingendo di sistemare la tenda. È rimasta con gli occhi incollati alle tende bianche, sipario aperto su una finestra che s’apre sulla strada. In fondo a quella strada, sporgendoti, non vedi niente, perché non c’è niente da vedere…
Per questo mio padre è partito un giorno di maggio di due anni fa… Ricordo la mamma allegra quando papà ha trovato un lavoro, quando ha mandato dei soldi a casa. Ero felice quando lui è tornato per Natale, pieno di regali. Quest’anno dovrebbe tornare per le vacanze estive e portarci al mare, sul Mar Nero. La prima vacanza vera, con tutta la famiglia. Me la sono meritata, la scuola va bene e non è per il diario bello che papà m’aveva portato a Natale. «Non è quello che fa la differenza» diceva lui. «Io lavoro con una tuta di stracci, e il lavoro lo faccio bene». Il suo lavoro papà lo fa bene.
Mio padre è partito un giorno di maggio di due anni fa… mia madre è ora lì, con la lettera di papà in mano, come a dire «la leggo o non la leggo ai miei figli?».
Sono partito un giorno di primavera di due anni fa. Ora mio figlio è lì che guarda sua madre. Mia moglie è lì con una mia lettera in mano e si chiede: Che faccio ora con questa lettera? La leggo o non la leggo ai miei figli?
Sono partito un giorno di maggio. La festa dei lavoratori l’avevamo già fatta, da disoccupati. Solite birre e salsicce. E bocce. Dovevo partire. Dovevo dare un futuro alla mia famiglia. Un varco per partire. Non vedevo altro in fondo alla strada. Sapevo che nella vita c’era ancora molto da vedere. L’hai mai vista tu Milano da cento metri di altezza? Le punte, le guglie ed i piccioni, mai sazi, che si spingono ancor più su per poi planare sui tetti, frenare sui cornicioni e da lì lasciarsi cadere nel vuoto fino all’atterraggio sul cemento orizzontale della città, per raccogliere le briciole di chi è indeciso se i colombi siano da sterminare o da sfamare… Molto dipende da quanto tuo figlio ama i piccioni, o quanto ne ha paura…
A volte sogno, mentre incollo i mattoni uno sopra l’altro e mi sento colpevole perché sto contribuendo alla cementificazione di questa città. Ho visto cime verdi sparire da un giorno all’altro, punte di alberi che scomparivano nella foresta di palazzi. Ho visto foreste di gru crescere nella notte. Forse i passanti indaffarati, con le valigette in pelle, non si sono accorti di niente.
Sono partito un giorno di primavera di due anni fa. Ora mio figlio è lì che guarda sua madre. Mia moglie è lì con una mia lettera in mano e si chiede: Che faccio ora con questa lettera? La leggo o non la leggo ai miei figli?
Ci sono giorni in cui da quassù il mondo ti sembra un altro, ci sono giorni in cui il mondo da quassù è meglio non vederlo… ci sono giorni in cui nemmeno puoi vederlo, tanto è il grigiore di nuvole che chiamano smog, nebbia di fumo. E poi ci sono giorni di maggio in cui la città è bella così, piena di colori, come la vedo io da qui, dalle impalcature… Milano, con i suoi tetti rossi, grigi, e le punte verdi degli alberi. E le nuove punte di grattacieli, le vele come le chiamano qui. Le vele in un mare di cemento. Le vele di cemento. E più in là, in fondo, la fiera… La fiera l’abbiamo costruita un po’ anche noi… gli immigrati… sono arrivati in tanti, come me, a lavorare nei cantieri della penisola. Ma non la contano mica giusta a casa, non tutti… «Non gli vedi i calli alle mani, non vedi che mente, non ha mai lavorato in cantiere», diceva mia moglie quando Paul raccontava le sue imprese italiane. In effetti, non avevo fatto caso io ai calli delle mani, lo immaginavo sulle impalcature, perché lui raccontava le punte della città e se non le vedi non le puoi raccontare…
Io avevo fatto anche il caporale al militare e non avevo altro significato da abbinare a questa parola. Poi ho scoperto la struttura dei cantieri: appalto, subappalto, imprenditore, caporale, manovale e magut. Paul era un caporale che procurava manovali e magut per subappalti e lavorava con imprenditori che avevano appalti. Sono partito un giorno di primavera di due anni fa. Ora mio figlio è lì che guarda sua madre. Mia moglie è lì con una mia lettera in mano e si chiede: Che faccio ora con questa lettera? La leggo o non la leggo ai miei figli?
Quest’anno alla festa dei lavoratori abbiamo fatto un corteo, con cartelli e bandiere, con slogan e comizio finale. Qui è bello vedere che la gente lotta per i propri diritti perché ci crede ancora. Abbiamo festeggiato, è giorno festivo qui, e quest’anno me lo pagano anche, per contratto. L’anno scorso il contratto non ce l’avevo, mi sembrava di perdere tempo, una giornata senza paga, poi mi sono detto che il corteo devi farlo proprio per quello. E quest’anno, in corteo, c’erano amici che gli sembrava di perdere una giornata di paga.
Abbiamo poi festeggiato con birre e salsicce. La sera sono andato a letto presto. Noi ci alziamo alle cinque per andare in cantiere. Non riuscivo a prendere sonno, pensavo alla famiglia ed ero contento, le cose stanno andando meglio, fra tre mesi andrò in ferie e li porterò al mare, quest’anno c’è una sorpresa per ognuno di loro.
Sono partito un giorno di primavera di due anni fa. Ora mio figlio è lì che guarda sua madre. Mia moglie è lì con una mia lettera in mano e si chiede: Che faccio ora con questa lettera? La leggo o non la leggo ai miei figli?
Quest’anno, dopo la festa dei lavoratori, sono andato a letto presto. Non riuscivo a dormire, poi sono crollato. Ho fatto un sogno. Volavo sopra la città, tra le guglie del Duomo, e nella selva di pinnacoli e sculture mi sono avvicinato in volo alla scritta «Madunina», proprio come la chiama Giovanni, il geometra. Ho fatto ciao con la mano alla madonnina dorata, m’è parso facesse anche lei ciao con la mano… Poi ho pensato che il sacerdote non sarebbe mica d’accordo col dire ciao alla Madonna, allora nel dubbio ho detto anche ave… Poi non ho più pensato, perché nel volo sopra la città non hai bisogno di pensieri.
Poi migliaia di statue, ad una ad una, hanno incominciato a staccarsi dal tetto del Duomo, dal tiburio, dalla facciata e dalla falconatura. Cadevano a testa in giù e si sfracellavano sul cemento. Anche gli angioletti ed i puttini si frantumavano in caduta libera, nonostante le ali. La Madunina rimaneva sola ed io dicevo spaventato ciao e pensavo che il sacerdote avrebbe disapprovato e poi non ho più pensato perché nel volo sopra la città non hai bisogno di pensieri. I pensieri da lassù vedevo che ce li avevano altri: c’era un’ambulanza che arrivava con le sirene spiegate, tirando su la polvere del cantiere e sentivo gli operai dire che un ritardo di due ore si spiegava solo col fatto che le statue da soccorrere erano senza documenti. Poi c’era un signore in doppiopetto, con la cravatta verde che si agitava al telefono, parlava con un capocantiere che si agitata e gli urlava cazzo, geometra, non doveva succedere, non ora che c’è la torta della fiera o la fiera della torta… Non ho capito bene e dal punto in cui volavo li vedevo entrambi sudati che agitavano le mani. Dall’alto mi sembrava una danza di dervisci ma loro erano scomposti, sudati e con gli occhi strabuzzati e paralizzati abbinavano la Madunina a qualche porco.
Poi il doppiopetto ha messo giù, ha guardato il cellulare allontanandolo da sé come fosse la pagina di un libro mai letto da cui prendi le distanze per distinguere le righe quando vuoi leggere. Ha chiamato qualcun altro, che poi era al bar del centro e dal punto in cui mi trovavo li ho visti entrambi, e gli diceva al caporale-imprenditore che prendeva un grappino alle dieci del mattino, guarda che il caporale sei tu, sei nei guai, e quello rispondeva siamo nei guai, mica solo io…
Ed il capocantiere ha chiamato un caposquadra e gli ha dato indicazioni agitando le mani e dicendo stiamo calmi, non è successo niente, dobbiamo rimanere calmi… Il doppiopetto ha ripreso ad agitarsi, ha chiamato col cellulare uno che si chiamava funzionario sindacale che leggeva un giornale al bar alle dieci del mattino. E questi gli ha detto, stai calmo, domani usciranno i comunicati, morti bianche, quote rosa, fiori di pesco, ribadiamo la sicurezza dei lavoratori, no, non ci sarò settimana prossima, sono ad un congresso in Toscana. E la danza del cantiere continuava nel roteare di uomini agitati che parlavano al cellulare. Allora è partito in volo un corteo, migliaia di statue, ad una ad una, hanno incominciato a staccarsi dal tetto del duomo, dal tiburio, dalla facciata e dalla falconatura. Marciavano in silenzio, senza cartelli, slogan e comizio finale. Marciavano in silenzio sulle punte della città, un corteo volante che sfiorava i tetti rossi e grigi. Sotto, sui marciapiedi, la gente indifferente continuava a fare foto alla Madunina rimasta sola.
Le statue avevano nomi di italiani ed egiziani, romeni e marocchini, senegalesi e albanesi, algerini e peruviani. Statue invadenti e senza documenti, statue anonime da fotografare per il ricordo di una storia che non vuole cambiare e di un destino preventivato e chiamato effetto collaterale delle conquiste dell’uomo. La città cresceva e invocava il vento del progresso nelle vele di cemento. Sotto, sui marciapiedi, la gente indifferente continuava a fare foto ad una Madunina rimasta sola.
Sono partito un giorno di primavera, come due anni fa. Sono partito in volo dietro ai piccioni, il volo che ho sempre sognato, giù dall’impalcatura per cento metri e tanti piani… Planavo tra tetti, punte, vele, guglie della città… ho fatto ciao alla Madunina, non c’era tempo per altro. Non sono volato giù dall’impalcatura, come diranno e scriveranno sui giornali. Sono volato su dall’impalcatura, come ho sempre sognato. Ma io non freno sull’asfalto, nemmeno sul cemento, e nemmeno sulla polvere…
Domani da qualche parte, usciranno comunicati e dichiarazioni di indignazione. Ora mio figlio è lì che guarda sua madre. Mia moglie è lì con una mia lettera in mano e si chiede: Che faccio ora con questa lettera? La leggo o non la leggo ai miei figli?