Chi ha un permesso di soggiorno ma lavora “in nero” può denunciare il proprio datore di lavoro e ottenere arretrati, ferie e permessi maturati. Gli stessi diritti spetterebbero agli immigrati irregolari, ma il più delle volte chi denuncia va incontro a un’espulsione
Chiunque instaura un rapporto di lavoro con un cittadino extracomunitario è obbligato a comunicare, almeno un giorno prima dell’inizio del rapporto, l’assunzione all’ufficio competente al Centro per l’impiego, oppure, se si tratta di lavoro domestico, all’INPS.
Entro i cinque giorni successivi il datore deve spedire con raccomandata A/R allo Sportello Unico per l’Immigrazione competente, il contratto di soggiorno (modello Q) che servirà al lavoratore per rinnovare il proprio permesso di soggiorno per lavoro.
Sono però tanti i datori di lavoro che per risparmiare sui costi aziendali omettono di fare le prescritte comunicazioni e occupano i cittadini stranieri irregolarmente. Questo nonostante le asprissime sanzioni previste contro il lavoro sommerso, che diventano anche più severe quando gli occupati sono immigrati clandestini.
Regolari e irregolari: stessi diritti
Il lavoratore “in nero” matura tutti i diritti a parità dei lavoratori regolari: differenze retributive, tredicesima, trattamento di fine rapporto, ferie e permessi non goduti, indennità varie, etc anche se il rapporto di lavoro non è stato regolarmente comunicato agli uffici competenti. Lo stesso vale in caso di infortunio sul lavoro, compresa la possibilità di richiedere le varie indennità per inabilità all’INAIL.
Gli stessi principi si applicano anche al lavoratore extracomunitario che ha prestato lavoro senza essere titolare di un permesso di soggiorno o con permesso di soggiorno scaduto e non rinnovato o revocato.
Quando un rapporto di lavoro “in nero” finisce, per dimissioni o licenziamento o per qualsiasi altra causa, anche dipendente dalla volontà del lavoratore stesso, questi avrà diritto a richiedere al datore di lavoro le somme maturate e non corrisposte. Potrà farsi assistere da consulenti del lavoro o da associazioni sindacali per qualsiasi informazione e per l’elaborazione dei conteggi o per avviare una eventuale vertenza.
Anche l’immigrato clandestino potrà avvalersi dell’assistenza di avvocati o sindacati per richiedere le somme cui ha diritto, ma se il datore di lavoro “farà le orecchie da mercante” solo la denuncia all’autorità di polizia gli consentirà di andare avanti. Questo però, come vedremo, lo esporrà al rischio molto concreto di essere espulso.
Le sanzioni per il datore di lavoro
Il datore di lavoro rischia di vedersi applicate delle sanzioni da parte dell’Inps nonché la sospensione o la chiusura delle attività commerciali. Se poi il lavoratore occupato è anche clandestino commette un vero e proprio reato penale.
Oltre alle normali sanzioni per il sommerso, il Testo Unico per l’Immigrazione, il D. lgs. 286/98, prevede che il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze un lavoratore extracomunitario sprovvisto di permesso di soggiorno (non lo ha mai avuto, gli è stato revocato, oppure una volta scaduto non lo ha rinnovato) è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e con la multa di 5.000 euro per ogni lavoratore irregolarmente occupato.
Scatta quindi la denuncia per il datore e la sottoposizione ad un vero e proprio processo penale, oltre all’obbligo del pagamento della multa amministrativa.
Cosa rischia il lavoratore
E il lavoratore? Per la legge italiana, non avendo diritto a chiedere un permesso di soggiorno nelle ipotesi di occupazione irregolare, deve essere denunciato ai sensi dell’art. 10 bis del D. Lgs. 286/98, per il reato di soggiorno illegale nel territorio italiano, e quindi espulso.
Solo in alcuni casi eccezionali è previsto il rilascio di un “permesso di soggiorno per protezione sociale”, regolato dall’art. 18 del Testo Unico sull’immigrazione. Questo permesso è concesso, a discrezione della Questura, quando “siano accertate situazioni di violenza o di grave sfruttamento nei confronti di uno straniero” ed emergono “concreti pericoli per la sua incolumità”, perché tenta di sfuggire a un’organizzazione criminale o a causa delle dichiarazioni che ha fatto durante le indagini o in un processo.
Il principio inizialmente era stato applicato solo nella attività di contrasto dello sfruttamento sessuale, riconoscendo alle donne obbligate alla prostituzione, la possibilità di rimanere in Italia seguendo dei percorsi di reinserimento. Con circolare del Ministero dell’Interno del 4 agosto 2007 si ritenne di dover estendere l’applicazione dell’art. 18 anche ai casi di immigrati soggetti a situazioni di violenza o di grave sfruttamento sul luogo di lavoro in altri settori.
Oggi quindi il permesso di soggiorno per protezione sociale è rilasciato, al di fuori delle ipotesi di sfruttamento sessuale, solo a quei lavoratori che versano in condizioni lavorative particolarmente gravi, nell’ambito del cd. fenomeno del caporalato. Altre forme di sfruttamento non violente, ad esempio una colf irregolare pagata pochissimo o alla quale sono negate le ferie, molto difficilmente potrebbero dare diritto allo stesso tipo di trattamento.
L’Unione europea e la direttiva 2009/52/CE
In questo contesto e proprio con lo spirito di contrastare il sempre più diffuso fenomeno dell’occupazione irregolare di cittadini stranieri, l’Unione Europea nel 2009, con l’adozione della direttiva 2009/52/CE, ha dichiarato guerra a chi dà lavoro a immigrati irregolari prevedendo nuove sanzioni finanziarie, amministrative e penali a carico dei datori di lavoro.
La direttiva vieta l’assunzione di cittadini stranieri irregolari ed è sufficiente contravvenire tale divieto per far scattare le sanzioni senza necessità che si sia di fronte a gravi situazioni di sfruttamento sul luogo di lavoro.
Il datore è obbligato, secondo la direttiva, a versare un importo pari alle tasse e i contributi previdenziali che avrebbe versato in caso di assunzione legale, incluse le penalità di mora e le relative sanzioni amministrative, oltre a liquidare le differenze retributive spettanti ai lavoratori sottopagati (se la retribuzione era inferiore al minimo stabilito dalla legge). Inoltre sono a suo carico le spese per l’eventuale rimpatrio del lavoratore.
Una responsabilità di tipo penale è prevista solo se il rapporto di lavoro è intrattenuto con un minore; se il numero di lavoratori irregolari è elevato; se la violazione è reiterata nel tempo ovvero se si è in presenza di condizioni lavorative di particolare sfruttamento.
Ma anche qui, nessun permesso di soggiorno speciale a chi denuncia.
Secondo la direttiva, il lavoratore irregolare può richiedere un permesso di soggiorno temporaneo di durata limitata solo se collabora nel procedimento penale a carico del datore di lavoro, quindi solo se è un minore o se versa in una situazione di grave sfruttamento.
Tale permesso è rilasciato per motivi di giustizia, non consente di lavorare e non può essere convertito in un permesso di altro tipo.
Lo Stato italiano è obbligato a recepire la direttiva entro il 20 luglio 2011, pochi Stati Membri dell’UE (Bulgaria, Spagna, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Finlandia) l’hanno già fatto.
Nel 2010, durante la discussione in Parlamento della legge “comunitaria” che doveva dare indicazioni al governo per attuare la direttiva, si propose di allargarne la portata, prevedendo il rilascio di un permesso per ricerca di lavoro ai clandestini che avessero denunciato la loro condizione. Poi però quella proposta fu stralciata e nulla lascia presumere che le intenzioni del governo possano cambiare. Direttiva o no, i clandestini che denunciano il datore di lavoro rischiano comunque l’espulsione.
Avv. Mascia Salvatore