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Razzisti non si nasce, la prova è nei bambini

Uno studio dell’UCLA dimostra che fino a 14 anni il cervello non reagisce alla percezione di un “diverso” e poi lo fa in maniera inversamente proporzionale al tasso di multietnicità delle proprie relazioni. Spiegazioni biologiche da rottamare? Non è detto

 

Roma – 19 ottobre 2012  – Razzisti non si nasce, al massimo lo si diventa a quattordici anni.

È il  risultato di uno studio pubblicato sul Journal of Cognitive Neuroscience da Eva Telzer e altri tre ricercatori dell’Università della California di Los Angeles, intitolato “Amygdala Sensitivity to Race Is Not Present in Childhood but Emerges over Adolescence”.

L’amigdala è la parte del cervello alla quale fanno capo le emozioni e in maniera particolare la paura. Ricerche sugli adulti hanno evidenziato che la percezione di una razza differente è associata a un incremento di attività di quest’area e questo ha spinto alcuni a dare un fondamento biologico alla xenofobia.

Lo studio dell’Ucla si è però concentrato sui più piccoli. Trentadue bambini e adolescenti tra i 4 e i 16 anni hanno osservato foto di volti di persone di origini etniche diverse mentre l’attività del loro cervello veniva scansionata con una risonanza magnetica.

La “sensibilità razziale” dell’amigdala è stata registrata solo in ragazzi con almeno quattordici anni, per quelli più piccoli vedere una persona con pelle e tratti somatici diversi non ha sul cervello effetti differenti da un incontro con dei “simili”. Inoltre, la reazione rilevata negli adolescenti è inversamente proporzionale al tasso di multirazzialità del gruppo che frequentano. “Questi risultati suggeriscono che i pregiudizi neurali sulla razza non sono innati e che la razza è una costruzione sociale, che si impara col tempo” notano gli autori dello studio.

I ricercatori scrivono “suggeriscono”, perché non hanno la certezza che le spiegazioni biologiche della paura del diverso siano da rottamare. “È possibile – notano – che la crescita con l’età della risposta dell’ amigdala sia dovuta a fattori intrinsechi del ragazzo, come la pubertà, piuttosto che all’esposizione a messaggi culturali”.

EP

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