Palazzo del Quirinale, 15/11/2011
Saluto i tanti ragazzi seduti qui in sala, in particolare quei giovani che hanno scelto di diventare cittadini italiani nell’anno del 150esimo della nostra Unità, non appena diventati maggiorenni. E saluto quei minorenni, cittadini italiani fin dalla nascita, che hanno tenuto comportamenti eccellenti così da meritare l’insegna di Alfiere della Repubblica che tra poco consegneremo. Questa udienza segnala l’importanza che si creino rapporti solidali tra ragazzi di differente origine, tra ragazzi di varia età e provenienza, tra giovani persone con talenti diversi, già espressi o ancora da far emergere.
Pure nei giorni così complessi e impegnativi che stiamo vivendo ho voluto confermare questa udienza che si colloca significativamente all’interno delle celebrazioni del 150esimo anniversario della fondazione dello Stato nazionale unitario italiano. Sono infatti convinto che i bambini e i ragazzi venuti con l’immigrazione facciano parte integrante dell’Italia di oggi e di domani, e rappresentino una grande fonte di speranza.
Il filmato che abbiamo visto all’inizio con le interviste ai piccoli scolari e ai giovani della seconda generazione, la testimonianza di Abdel Hakim Jellaoui, la bella interpretazione di Alexander Romanovsky, le vittorie di una squadra, quella di ginnastica ritmica, che unisce atlete – voglio sottolinearlo – tutte italiane anche se di origini diverse, ci hanno confermato nell’opinione che la nostra è diventata una comunità nazionale nella quale i figli di immigrati contano non solo come numeri, ma anche per le capacità che esprimono. Si tratta di una presenza che concorre ad alimentare quell’energia vitale di cui oggi l’Italia ha estremo bisogno. Anche Jellaoui ce lo ha ricordato. Più in generale, non comprendere la portata del fenomeno migratorio e non capire quanto sia necessario, sia stato e sia necessario, il contributo dell’immigrazione per il nostro Paese significa semplicemente non saper guardare alla realtà e al futuro.
I nati in Italia ancora giuridicamente stranieri superano il mezzo milione, e complessivamente i minori stranieri residenti in Italia sono quasi un milione; di questi, più di 700mila studiano nelle nostre scuole. Senza questi ragazzi il nostro Paese sarebbe decisamente più vecchio e avrebbe minore capacità di sviluppo. Senza il loro contributo futuro alla nostra società e alla nostra economia, anche il fardello del debito pubblico sarebbe ancora più difficile da sostenere.
Negli ultimi 20 anni, tra il 1991 e il 2011, il numero dei residenti stranieri è aumentato di 12 volte. Tuttavia gli immigrati che sono diventati cittadini sono ancora relativamente pochi, anche se negli ultimi 10 anni c’è stato un notevole incremento. All’interno dei vari progetti di riforma delle norme sulla cittadinanza, la principale questione aperta rimane oggi quella dei bambini e dei ragazzi. Molti di loro non possono considerarsi formalmente nostri concittadini perché la normativa italiana non lo consente, ma lo sono nella vita quotidiana, nei sentimenti, nella percezione della propria identità. I bambini nati in Italia, che fino ai 18 anni si trovano privi della cittadinanza di un Paese al quale ritengono di appartenere, se ne dispiacciono e se ne meravigliano, perché si sentono già italiani come i loro coetanei. Lo abbiamo ascoltato nell’intervista alla giovane della rete G2, che unisce le seconde generazioni. Lo stesso atteggiamento hanno quei ragazzi che in Italia sono arrivati da piccoli, ma qui sono cresciuti e hanno studiato: ritengono di avere diritto ad un trattamento che riconosca il loro percorso di vita ed educativo. E proprio sulla necessità di riflettere su una possibile riforma delle modalità e dei tempi per il riconoscimento della cittadinanza italiana ai minori si è registrata una sensibilità politica significativa e diffusa già nella discussione del gennaio 2010 alla Camera dei Deputati. Si osserva, inoltre, una ampia disponibilità nell’opinione pubblica italiana a riconoscere come cittadini i bambini nati in Italia da genitori stranieri. In generale, gli italiani appaiono disponibili nei confronti dei bambini di origine immigrata: si rileva – ad esempio – una decisa diminuzione di quanti, già pochi in partenza, ritengono che la presenza di quei bambini nelle scuole rappresenti un ostacolo per l’apprendimento dei propri figli.
È opportuno tenere presente che i ragazzi di origine immigrata nella scuola e nella società sono non solo una sfida da affrontare, ma anche una fonte di stimoli fruttuosi, proprio perché provengono da culture diverse. E non deve preoccupare il fatto che la loro sia un’identità complessa, non necessariamente unica, esclusiva. Se noi desideriamo che i figli e persino i nipoti o pronipoti dei nostri cittadini emigrati all’estero mantengano un legame con l’Italia e si sentano in parte anche e ancora italiani, non possiamo chiedere invece ai ragazzi che hanno genitori nati in altri paesi di ignorare le proprie origini. L’importante è che vogliano vivere in Italia e contribuire al benessere collettivo condividendo lingua, valori costituzionali, doveri civici e di legge del nostro paese, come s’impegna a fare il giovane imprenditore di origine cinese che abbiamo ascoltato nel filmato. Igiaba Scego, scrittrice italiana di origine somala, scrive in un suo racconto di sentirsi una donna “con più identità”: somala “quando beve il tè con il cardamomo, i chiodi di garofano e la cannella” e davvero italiana quando “ricorda a memoria tutte le parole del 5 maggio di Alessandro Manzoni”. Questa breve citazione rende l’idea di quanto sia naturale per i giovani di origine immigrata collocarsi tra più culture, tra più stili di vita. Dobbiamo essere fieri del fatto che, pur mantenendo un legame con le origini, essi esprimano la volontà di diventare italiani. Questo, infatti, rappresenta un’attestazione importante di stima e fiducia nei confronti del nostro Paese. Dobbiamo sentire una forte responsabilità e un preciso dovere di non deludere questa fede nell’Italia che anche il giovane neoitaliano di origini marocchine ha qui testimoniato. E vorrei fargli molti auguri per la strada che ha scelto d’impegno nella formazione tecnica e ingegneristica: avrebbe anche potuto concorrere per entrare nel corpo dei Corazzieri.
Più in generale – lo ho affermato tante volte, ma non mi stanco di ripeterlo – l’Italia deve diventare il più rapidamente possibile un paese aperto ai giovani: nel lavoro, nelle professioni, nelle imprese, nelle istituzioni. Le classi dirigenti italiane e, lasciatemi aggiungere, quelle europee, non devono mai dimenticare la responsabilità che hanno verso i giovani, verso il loro presente e per il loro futuro.
E dall’attenzione al destino dei giovani non vanno esclusi i ragazzi stranieri, i futuri nuovi italiani.
Ai giovani, dunque, qualunque sia la loro origine, bisogna offrire opportunità non viziate da favoritismi. Occorre smontare la convinzione che la nostra sia una società nella quale le occasioni sono riservate solo a chi appartenga a certi ambienti, solo a chi abbia i contatti giusti.
Bisogna cominciare a valorizzare il merito già nei minori, come abbiamo fatto anche in questa cerimonia assegnando le benemerenze di Alfiere della Repubblica. È un riconoscimento destinato alle ragazze e ai ragazzi – in questo spirito ho voluto istituirlo – che non hanno ancora compiuto 18 anni; è un riconoscimento che vuole premiare i talenti e gli atteggiamenti virtuosi. Possono concorrere al titolo di Alfiere anche i ragazzi stranieri nati in Italia o che vi abbiano studiato per almeno cinque anni. Spetta alla scuola concorrere a formare la coscienza civile dei giovani, ed è compito precipuo della scuola sia promuovere i migliori, sia mettere tutti in condizione di migliorare. Quanto al lavoro è necessario adottare sempre di più sistemi di assunzione e di promozione trasparenti. Dobbiamo insomma far funzionare quell’ascensore sociale che è rimasto troppo a lungo bloccato; dobbiamo mettere il merito e l’impegno al centro delle politiche, perché valorizzare il merito non significa solo promuovere equità, significa promuovere crescita.
Occorre smentire l’opinione troppo pessimistica e abusata, secondo la quale le famose raccomandazioni – parola che chi arriva in Italia impara presto – servono più dell’impegno personale. Cito a questo proposito Guido Rossi, giurista e avvocato di grande successo, ex Presidente dell’organismo di vigilanza della Borsa: “Mia madre faceva le pulizie in tribunale, mio padre è morto quando avevo 10 anni. L’istruzione mi ha aperto le porte della professione”. E di quale professione! Perciò – e anche questo non mi stancherò di ripeterlo – le famiglie e lo Stato devono credere e investire nell’istruzione, nell’educazione, nella formazione. Ma soprattutto dovete farlo voi ragazzi, anche voi nuovi italiani e bambini stranieri che aspettate di diventarlo. E dico: “Benvenuti nella nostra comunità”. A tutti voi che vivete in Italia i più sentiti auguri per un futuro sereno. A tutti gli adulti e, se mi consentite, a tutti gli anziani, l’invito ad impegnarsi perché questo futuro possiate averlo.