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Ecco perché bisogna fornire educazione islamica di qualità in Italia

Ci sono circa 2,5 milioni di musulmani in Italia. La maggior parte di questi sono originari del Marocco e dell’Albania, seguiti da una minoranza proveniente dal Bangladesh, dall’Egitto, dal Pakistan e dal Senegal. La gran parte vive nella porzione settentrionale della nostra penisola, e tra tutti i 2,5 milioni di musulmani presenti sul suolo italiano, intorno al 40% possiede la cittadinanza italiana; tra coloro che non la hanno, circa 100,000 fanno domanda ogni anno per diventare cittadini italiani.

Dunque, i musulmani in Italia costituiscono una comunità molto piccola: essi costituiscono il 4% della popolazione. Nonostante questo, però, una buona percentuale di italiani vive la loro presenza con disagio, il quale scaturisce da incomprensioni nei confronti di questa minoranza religiosa. Tra i sondaggi condotti dal PEW Research Centre (un prestigioso ente di ricerca sociale), troviamo dei dati allarmanti: in Italia, quasi il 70% degli intervistati esprime un “giudizio negativo” nei confronti dei musulmani. Questi dati sono allarmanti, e queste percentuali sono molto alte. In effetti, l’Italia risulta essere uno dei paesi europei in cui i musulmani sono visti peggio. L’unico paese europeo in cui il livello di disagio nei confronti dei musulmani supera quello percepito dagli italiani è l’Ungheria, in cui ne vivono solo cinquemila.

Nonostante la bassa presenza di musulmani in Italia, questi costituiscono una minoranza stabile e sempre più italiana, in senso legale (come abbiamo detto, il 40% possiede già la cittadinanza italiana, ed ogni anno vengono emesse nuove richieste). La stragrande maggioranza dei musulmani in Italia si ritiene estremamente fortunata di trovarsi in questo paese. Essa è costituita da persone che lavorano a tempo pieno, che mirano a condizioni di vita migliori per le proprie famiglie, caratterizzate da una forte volontà di integrarsi armoniosamente con la comunità italiana che li circonda. La fede e le pratiche religiose costituiscono un importante aspetto della vita sociale, culturale e morale delle comunità musulmane in Italia. Le nascite, i matrimoni ed i funerali sono celebrati con riti islamici, e nella gioia e nel dolore il conforto è ricercato nella religione. In questo, le comunità musulmane non sono affatto diverse dalle altre comunità di immigrati e, tantomeno, dalle comunità locali.

A nostro parere, è importante capire il perchè di questo “giudizio negativo” espresso nei confronti delle comunità musulmane, ed è ancora più importante capirne le cause per poter migliorare la situazione e sfatare dei miti negativi che circondano questa comunità religiosa. I fattori, secondo noi, sono molteplici.

Storicamente, le comunità islamiche si sono senz’altro scontrate con l’Europa – si pensi alle crociate, alle invasioni mongole o ai conflitti con gli Ottomani. Perciò, in un certo senso, la paura nei confronti dell’islamismo è presente nel DNA, o nel retaggio culturale degli europei – e degli italiani. Dunque, risulta facile, per alcuni politici e non solo, sfruttare questo elemento di paura, ed è ancora più facile per la stampa sensazionalizzare eventi legati a persone o ideali musulmani che rinforzano preconcetti negativi. Sarebbe bello se i politici ed i media si assumessero più responsabilità e cercassero di salvaguardare la comunicazione costruttiva ed, effettivamente, informativa per quanto riguarda la diversità etnica, culturale e religiosa; purtroppo, però, la sensazionalizzazione degli eventi attrae visibilità mediatica ed attrae voti in parlamento, ed è ingenuo pensare che ciò possa cambiare facilmente.

Un altro fenomeno importante da analizzare è quello degli attacchi terroristici compiuti dai fondamentalisti islamici. Spesso, purtroppo, si sentono pronunciare dichiarazioni maligne e frutto di ignoranza come: “non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”. Tralasciando il fatto che a questo tipo di affermazione potrebbe controbattere molto facilmente chiunque abbia anche solo una superficiale conoscenza della storia d’Italia, d’Europa e del mondo, possiamo trovare anche un altro fattore che non aiuta a superare questa ignoranza. Infatti, in Italia non ci sono leader politici, opinionisti accreditati o personalità autorevoli che siano in grado di controbattere a queste affermazioni semplicistiche ed errate. Al contrario, in paesi come l’Inghilterra troviamo il sindaco di Londra, Sadiq Khan, o il ministro degli Interni, Sajid Javid, (immigrati di seconda generazione provenienti dal Pakistan), personalità che ricoprono autorevoli ruoli istituzionali e che, in quanto immigrati di seconda generazione provenienti dal Pakistan, sono in grado di contestualizzare questi atti, distanziandoli dalla religione islamica tout court e mettendoli in relazione, perlopiù, con l’alienazione e il disadattamento sociale che ne sono alla radice. La mancanza di queste voci autorevoli fa sì che l’Italia sia mancante di una prospettiva analitica adeguata su questi fatti, e le comunità musulmane in Italia sono accusate di non prendere le distanze in maniera sufficientemente convincente da questi atti terroristici.

A nostro parere, l’elemento più importante da tenere in considerazione, e a cui rimediare urgentemente, è la mancanza e l’incapacità di dialogo, soprattutto tra i giovani musulmani ed i loro coetanei – figli di genitori Italiani. I giovani musulmani di seconda o terza generazione sono, in gran parte dei casi, nati e cresciuti in Italia, e l’unica lingua che parlano è, in molti casi, l’italiano. Questi, spesso, vivono nelle zone più povere delle grandi città, ed i rapporti che intrattengono con i loro pari – siano questi cattolici o appartenenti ad altre religioni – sono complicati, confusi e travagliati, soprattutto per le ragazze o le giovani donne. Per quanto riguarda i ragazzi, molti vengono coinvolti – o si coinvolgono – in piccoli atti di delinquenza, e si ritrovano spesso ad aver a che fare con le forze dell’ordine.

Dunque, l’alienazione dei giovani membri delle comunità musulmane in Italia aumenta, in molti casi, per motivi economici e culturali. In Italia, a differenza di paesi come gli Stati Uniti, il Canada o la Gran Bretagna, molti immigrati non ottengono alte qualifiche accademiche o professionali, e stentano a raggiungere una buona posizione sociale ed economica. Questa disparità, se così si può definire, si trasmette alle generazioni successive: la mancanza di icone, di punti di riferimento o di personalità pubbliche di successo significa che, in Italia, i giovani musulmani hanno difficoltà a trovare da chi trarre ispirazione positiva. Negli Stati Uniti, invece, troviamo Zaha Hadid, originaria del Baghdad, una tra gli architetti più pagati al mondo; Iman Abdulmajid, una profuga della Somalia divenuta top model ed imprenditrice di successo nel settore della moda e dei cosmetici; in Inghilterra troviamo personalità politiche importanti provenienti dal Pakistan. Altri esempi non mancano.

Il primo passo da compiere e, secondo noi, il più importante, è aiutare i giovani musulmani a capire la propria religione e ad imparare ad interpretarla nel contesto sociale in cui vivono. Purtroppo, questo non accade sufficientemente al giorno d’oggi; anzi, spesso capita tutto il contrario.

Un aspetto centrale nella vita delle comunità musulmane è di offrire ai giovani un’educazione religiosa, della quale l’aspetto più importante è lo studio del Corano. I ragazzi musulmani sono tenuti ad imparare a leggere il Corano e a recitarlo – perlomeno nei suoi passi più importanti. I giovani iniziano a ricevere un’istruzione religiosa intorno ai cinque o sei anni, finché raggiungono i dodici o tredici anni di età. Per frequentare i corsi di religione, questi vengono mandati, solitamente, alla moschea o al centro islamico più vicino. Solo una famiglia agiata può permettersi di mandare i propri figli da un imam o un hafiz (che conoscono i versi del Corano a memoria e sono ritenuti esperti nell’interpretazione del testo sacro).

Tra gli insegnanti di religione ed i loro allievi c’è un gran divario. Come già accennato, la maggior parte dei giovani musulmani in Italia parlano prevalentemente – se non esclusivamente – italiano, sono di posizione sociale disagiata, spesso anche alienati dalla società circostante. Per la gran parte di essi, la preoccupazione principale è quella di inserirsi nella società attraverso lo studio o il lavoro, cercando, così, di crearsi un’identità ed un senso di appartenenza. Al contrario, molti degli insegnanti di religione assegnati a questi ragazzi sono cresciuti nel proprio paese di origine e, dunque, provengono da comunità musulmane assolutamente integrate – dal Marocco, dalla Tunisia, dal Bangladesh o dal Pakistan. Molti di loro non parlano italiano, e sono completamente isolati dal contesto sociale e culturale in cui i loro allievi sono inseriti. Di conseguenza, per i giovani musulmani italiani, l’educazione religiosa assume principalmente un aspetto formale. Ad esempio, la meccanicità di leggere e recitare i versi del Corano non viene accompagnata da una discussione critica ed approfondita riguardo l’applicazione di tali precetti nella vita quotidiana, o nei rapporti con membri di fedi religiose differenti. Di recente, abbiamo assistito anche ad una forte crescita di lezioni di religione islamica su piattaforme digitali, appetibili per la loro praticità, flessibilità e costi molto più accessibili. E’ chiaro, però, che le lezioni reperibili via internet offrono un’educazione religiosa ancora più distaccata dal contesto sociale con cui gli allievi si confrontano quotidianamente.

In generale, dunque, la maniera in cui i giovani musulmani in Italia vengono educati alla religione islamica tende a non affievolire la loro l’alienazione sociale e culturale. Essi si sentono musulmani, ma non hanno gli strumenti per applicare i principi del Corano e la morale islamica alla propria realtà quotidiana. Si tratta di un fenomeno che ha rinforzato, e continua a rinforzare, il divario tra l’educazione religiosa e la vita quotidiana dei musulmani italiani di seconda e terza generazione.

Il rischio di radicalizzazione emerge proprio da questo clima di alienazione e di disadattamento sociale. Scuole di pensiero fanatiche, imam o attivisti radicalizzati riescono ad inserirsi nella vita di questi giovani ed ad avere una forte presa su di loro. Questo accade nelle comunità non integrate, nei luoghi di aggregazione e nelle prigioni – dove molti ragazzi (in maggioranza di sesso maschile) finiscono per piccoli crimini, legati, spesso, a cause simili a quelle presentate nel presente articolo. Non vi è molta supervisione su questo aspetto della loro vita: i genitori spesso hanno poco tempo per seguire con cura l’educazione dei figli e la preparazione degli insegnanti – cosa che accade anche per molte famiglie italiane; internet è un serbatoio di informazioni infinito, dove si possono trovare ogni genere di interpretazioni delle sacre scritture; il governo italiano e i comuni, in molti casi, non sono consapevoli dell’impatto che l’istruzione islamica ha – ed è giusto che abbia – sulla vita di questi giovani, e non sono al corrente di cosa accade nelle comunità, nelle prigioni o nelle scuole di religione.

La mancanza di attenzione riservata ad un’educazione islamica di qualità è un grosso problema in Italia, e questo, come abbiamo visto, accade per una serie di motivi. E’ importante capire che l’unica colpa che hanno i giovani musulmani in Italia e, spesso, anche in altri Paesi europei, è di non avere accesso ad un’istruzione onnicomprensiva, che li metta in contatto con la loro religione ma contestualizzandola alla realtà sociale circostante.

di Daud Khan e Leila Yasmine Khan

Biografia Daud Khan.Nato in Pakistan nel 1954 e residente a Roma. Ha studiato economia alla London School of Economics e all’Università di Oxford, oltre ad una specializzazione in Gestione Ambientale ottenuta all’Imperial College of Science and Technology di Londra. Oltre ad aver lavorato per la FAO, ha una esperienza pluriennale nella gestione dello sviluppo strategico, politico, progettuale e della gestione delle crisi ed emergenze a livello internazionale, con particolare riferimento alla gestione delle politiche agricole e commerciali, di media e grande scala. Profondo conoscitore, con esperienze sul campo, delle politiche agricole e dello sviluppo rurale degli stati quali la Cina ed il Vietnam. Ha lavorato per Enti Governativi ed Istituzioni benefiche, oltre ad aver collaborato con le maggiori Istituzioni Finanziarie Internazionali (IFI). Ha gestito team multidisciplinari e multinazionali nell’ambito gestionale in grandi istituzioni e società commerciali mondiali lavorando prevalentemente in Asia, Africa ed Europa. In Pakistan lavora da 25 anni a progetti, programmi e politiche in ambito di agricoltura e sviluppo rurale.

Biografia Leila Yasmine Khan.Nata a Formia (LT) nel 1989 di madre italiana e padre pakistano. Ha seguito gran parte del suo percorso accademico a Roma – scuola elementare e media in una scuola internazionale bilingue (AMBRIT International School), liceo classico statale Virgilio ed Università degli studi di Roma Tre. Qui si è diplomata e laureata con il massimo dei voti. Da tre anni vive nei Paesi Bassi, dove ha conseguito due Master alla Universiteit van Amsterdam: uno in Teorie dell’Argomentazione e della Retorica; l’altro in Filosofia della Cognizione. Ha collaborato con l’università di Amsterdam come ricercatrice e scrive come freelance per vari giornali internazionali.

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