Sul New York Times le storie di imprenditori di successo che hanno costruito il loro impero pur non conoscendo la lingua del Paese in cui hanno fatto fortuna. “Non è un handicap per i nostri affari”
Roma – 10 novembre 2011 – Felix Sanchez, Zhang Yulong e Kim Ki Chol hanno almeno tre cose in comune. Sono imprenditori immigrati negli Usa, hanno costruito dal nulla immense fortune e ci sono riusciti senza conoscere l’inglese.
Le loro storie sono finite qualche giorno fa sul New York Times, spunti di riflessioni importanti mentre si vuole anche per legge che la conoscenza della lingua è un requisito indispensabile per l’integrazione. Una tendenza che va ben oltre i confini americani, basti pensare ai test di italiano già obbligatori per chi vuole prendere la carta di soggiorno e che diventeranno una tappa obbligata per tutti gli immigrati appena entrerà in vigore il permesso di soggiorno a punti.
Secondo il Census Bureau, l’Istat a stelle e strisce, 4,5 milioni di capofamiglia negli States parlano “non bene” o “per niente” inglese. E in 35.500 casi guadagnano oltre 200 mila dollari l’anno. Ci riescono, spiega il sociologo esperto di immigrazione Nancy Foner, anche grazie alle nuove tecnologie che permettono di fare affari su un mercato globale.
Il signor Sanchez, arrivato negli Usa dal Messico nel 1970, è partito praticamente da zero, vendeva tortillas per strada, ma ora ha un’industria di cibo messicano che fattura 19 milioni di dollari l’anno. “Il mercato è completamente ispanico, non hai bisogno dell’inglese”racconta, spiegando che gestisce la sua attività facendo telefonate o inviando ordini via internet.
Zhang ha iniziato vendendo accessori per cellulari a Manhattan, poi, con i soldi di parenti e investitori cinesi, ha aperto nella madrepatria una fabbrica di cover di pelle per i telefonini. Oggi le vende negli Usa, in Canada e Sudamerica, gestendo gli affari da New York. Dice di comprendere l’inglese “al 30%”, i suoi impiegati parlano tante lingue, a lui basta il cinese. Non ritiene che sia un handicap, “l’unico ostacolo che conosco – dice – è la stanchezza”.
Partendo da un negozietto di vestiti e accessori aperto a Brooklyn trent’anni fa, il coreano Kim Ki Chol ha costruito un impero attivo nel commercio e nel mattone, al quale oggi affianca l’impegno per i diritti della comunità. Racconta che i suoi primi clienti erano afro-caraibici e afro-americani, non parlavano certo coreano, “ma non c’era bisogno di fare grandi conversazioni, ci si intendeva a gesti”.
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Moving to U.S. and Amassing a Fortune, No English Needed (The New York Times)
EP