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Cittadinanza italiana per i figli degli immigrati, la riforma è a costo zero

Le nuove regole per diventare italiani non peseranno sulle casse pubbliche. La relazione della Ragioneria Generale dello Stato

Roma – 11 febbraio 2016 – La riforma della cittadinanza per i figli degli immigrati non avrà “effetti rilevanti” sulle casse dello Stato. Chi non vuol far diventare italiane le seconde generazioni dovrà trovare un’altra scusa per votare contro le nuove regole in discussione al Parlamento. 

A chiudere, si spera definitivamente, uno dei fronti aperti sulla riforma è una relazione tecnica depositata ieri al Senato dal viceministro per l’economia Enrico Morando. L’aveva chiesta la commissione bilancio, chiamata a esprimere un parere sul disegno di legge 2092, “Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, e altre disposizioni in materia di cittadinanza”.

La Ragioneria Generale dello Stato smonta tutte le obiezioni che erano state sollevate dall’opposizione, a partire dal fatto che la riforma non prevede il versamento del solito contributo di 200 euro per le richieste o le dichiarazioni di cittadinanza relative ai minori. In realtà si tratta di percorso nuovo, destinato a chi nasce qui o qui frequenta un ciclo scolastico, quindi non si può parlare di diminuzione del gettito, semplicemente non ci sarà gettito aggiuntivo. 

Certo potrebbero diminuire le seconde generazioni che con le regole attuali prendono la cittadinanza a 18 anni pagando i 200 euro, perché la prenderanno prima gratuitamente, ma questo toglierà qualcosa solo al ministero dell’Interno, senza alterare “i saldi di finanza pubblica”.  “Si tratta, infatti, di somme a destinazione vincolata, riassegnate in corso d’anno e non considerate in sede di previsione annuale” spiega il documento.

A preoccupare di più i senatori del centrodestra sembrano però i possibili effetti finanziari  indiretti della riforma. Questi nuovi italiani, è il loro ragionamento, non costeranno di più in termini di prestazioni assistenziali, previdenziali e sanitarie? La risposta degli esperti del ministero dell’Economia è “no”, visto che già godono di quelle prestazioni anche da stranieri. 

Innanzitutto, nella relazione si ricorda che le prestazioni assistenziali sono già riconosciute ai cittadini comunitari, agli extracomunitari con permesso Ue per lungosoggiornanti (carta di soggiorno) e ai loro familiari. La Corte Costituzionale ha inoltre già chiarito che per alcune prestazioni (pensione di inabilità, indennità di accompagnamento, indennità di frequenza, assegno mensile, pensione ai ciechi) è sufficiente “la titolarità di un permesso di soggiorno di durata non inferiore ad un anno”. 

Quindi, anche se aumentasse il numero degli italiani, questo “non avrebbe effetti finanziari rilevanti”. 

Il discorso vale anche per le prestazioni per le quali  è ancora espressamente prevista la cittadinanza italiano o comunitaria oppure la carta di soggiorno, come (sono gli esempi citati nella relazione)  l’assegno di maternità per i lavori atipici e discontinui e l’assegno familiare (ANF).  Gli stanziamenti per coprirle sono infatti “determinati sulla base dell’andamento demografico complessivo dei cittadini italiani” e secondo la Ragioneria “tale grandezza non può essere influenzata in maniera rilevante” dalle conseguenze della riforma. 

Infine, anche gli oneri sanitari rimarranno gli stessi. Perché? Perché i minori stranieri, ed è strano che gli oppositori della riforma se lo siano dimenticati, sono già “iscrivibili al Servizio Sanitario nazionale” e rimangono iscritti dopo i diciotto anni se hanno un permesso per studio o per lavoro. Pertanto, “la condizione di cittadino italiano non comporta oneri aggiuntivi”. 

Elvio Pasca

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Ragioneria generale dello Stato – A.S. 2092 – Relazione tecnica aggiornata

 

 

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