Diritti negati, deportazioni in Paesi a rischio, respingimenti nel deserto… Gli effetti dell’esternalizzazione delle frontiere voluta da Italia e Ue. L’analisi dell’Arci
Roma – 27 giugno 2016 – “Diciamo di volerli aiutare a casa loro. In realtà li aiutiamo a morire a casa loro”. Filippo Miraglia, vicepresidente dell’Arci, riassume così gli effetti più tragici dell’esternalizzazione del controllo delle frontiere, strategia ormai fondamentale nelle politiche europee e italiana sull’immigrazione.
C’è l’accordo con la Turchia, che in cambio di soldi e promesse (come quella sulla liberalizzazione dei visti, ancora lungi dal realizzarsi) ha chiuso per profughi e migranti la rotta dell’Egeo. Ci sono e ci saranno gli accordi con i Paesi africani: volete fondi per lo sviluppo o anche solo commerciare con noi? Dovete fermare chi vuole arrivare in Europa e riprendervi velocemente i migranti che espelliamo.
I nostri interlocutori, però, sono spesso regimi dittatoriali che di fatto negano o non prendono nemmeno in considerazione i diritti fondamentali. Imprigionano, torturano, uccidono, fanno sparire gli oppositori, figuriamoci se, ad esempio, potranno mai garantire il diritto d’asilo a quanti attraversano i loro territori per raggiungere l’Europa.
“L’esternalizzazione è un processo che ha conosciuto una grande accelerazione, con una violazione sempre più flagrante dei diritti dei migranti. E in questo processo il governo italiano ha un ruolo centrale” denuncia Sara Prestianni, che con Arci ha curato un rapporto sull’esternalizzazione del controllo delle frontiere in Africa, presentato oggi a Roma.
È un’analisi dettagliata di tutte le tappe del percorso che inizia nel 2014 con il processo di Khartoum, quando di auspica il dialogo con i regimi del Sudan e dell’Eritrea, e prosegue con il Summit a La Valletta del 2015, quando viene istituito il Fondo Europeo Fiduciario per l’Africa (EUTF), finanziato soprattutto con i fondi per lo sviluppo (10 milioni da parte dell’Italia). Obiettivo dichiarato: fermare i flussi migratori.
Lo scorso aprile l’Italia sposa in pieno questa impostazione proponendo il Migration Compact, che si ispira proprio al criticatissimo accordo tra Ue e Turchia. Il 6 giugno arriva infine la Comunicazione della Commissione Europea sul “partenariato con i Paesi terzi”, che dovrebbe coinvolgere prioritariamente sedici Paesi africani, a partire da Nigeria, Senegal, Etiopia, Niger e Mali.
“Per la prima volta – scrive Prestianni a proposito del piano di Bruxelles – si ufficializza l’idea di condizionare l’erogazione dei fondi allo sviluppo alla collaborazione sulla migrazione, trasformando così la cooperazione in un ‘premio’ o in una ‘penalità’ rispetto all’impegno nel controllo e nella riammissione”. Li chiamano ancora fondi allo sviluppo, in realtà serviranno in buona parte proprio a finanziare il sistema di controllo e repressione chiesto dall’Europa.
Nel rapporto si descrivono gli effetti della politica di esternalizzazione in tre Paesi chiave della strategia italiana ed europea.
In Sudan, il regime di Ahmad al-Basir (sul quale pende un mandato di arresto dell’Aja per crimini contro l’umanità) è accusato di aver organizzato lo scorso maggio retate di cittadini eritrei: 1300 sarebbero stati deportati in patria, dove chi parte “illegalmente” viene punito con il carcere a vita e dove, secondo le recenti conclusioni di un’inchiesta dell’Onu, le violazioni dei diritti umani sono sistematiche e diffuse. Agli eritrei che arrivano in Europa viene quasi sempre garantito l’asilo politico, qualcosa vorrà dire.
Le trattative tra Ue e Niger si sono concluse invece lo scorso maggio: in cambio di 75 milioni, lo stato africano blinderà le sue frontiere, anche respingendo chi arriva dal deserto della Nigeria, e riammetterà quanti hanno transitato nel suo territorio e sono arrivati in Europa. “Se attivato, l’accordo porterà all’espulsione di massa di migliaia di migranti dall’Ue, senza considerare la loro condizione personale o che fine faranno una volta in Niger, da dove potrebbero essere rispediti nei Paesi d’origine” fa notare Prestianni.
C’è poi il Gambia, dove lo scorso 10 maggio è arrivata una delegazione della Polizia Scientifica e della Cooperazione italiana, per stringere accordi sulla lotta all’immigrazione irregolare. Negli stessi giorni, una mozione del Parlamento Europeo denunciava la repressione violenta, le sparizioni e gli omicidi di cui si è macchiato il regime di Yahya Jammeh.
L’Italia, però, tratta i gambiani come migranti economici irregolari e quindi abbiamo offerto al loro governo 50 autoveicoli per il controllo delle frontiere con il Senegal, oltre a 250 computer, scanner e stampanti, in cambio di riammissioni veloci (e quindi di altrettanto veloci espulsioni). La posta in palio è alta: i gambiani sono la terza nazionalità tra gli arrivi sulle nostre coste del primo semestre del 2016 e nel 2015 hanno presentato 8500 domande d’asilo.
“I diritti umani non possono essere accantonati, né evocati per poi però non prenderli in considerazione nelle trattative reali. Controlli delle frontiere e rimpatri sono legittimi solo se rispettano i diritti delle persone, ma la priorità dell’ Italia e dell’ Europa pare essere solo il vincolo stringente tra l’impegno a bloccare i flussi e gli aiuti allo sviluppo. Tra l’altro, nel breve periodo, gli aiuti allo sviluppo potrebbero addirittura far aumentare quei flussi” spiega Filippo Miraglia.
Questi accordi serviranno davvero a fermare i flussi e a salvare vite umane? Secondo l’Arci, sostenerlo è “pura ipocrisia”.
“La storia ci insegna – ricorda il rapporto – che la chiusura di una rotta non riduce la migrazione, ma ne apre di nuove. La criminalizzazione dei migranti nei paesi di transito, al contrario, aumenta il numero dei morti respinti nel deserto, nei paesi d’origine, obbligati a vie ancora più impervie. L’Unione Europea sarà direttamente responsabile di queste morti, anche se non avvengono davanti alle nostre coste, in quanto effetti diretti della sua politica in Africa”.
Elvio Pasca