Roma, 16 febbraio 2022 – L’immigrazione in Italia viene gestita, da anni, come una questione emergenziale. La dimostrazione sono i Centri di accoglienza straordinaria (Cas) che, nella realtà, sono impiegati normalmente in modo strutturale. C’è poi il Sai, il Sistema di accoglienza e integrazione, gestito dai Comuni. La distribuzione, la tipologia e la dimensione dei centri, tuttavia, sono caratterizzate da una mancanza di programmazione e analisi. A dimostrarlo è il monitoraggio di ActionAid in collaborazione con Openpolis: insieme hanno creato Centri d’Italia, una piattaforma in grado di mappare tutti i centri presenti sul territorio nazionale.
Immigrazione, la nuova piattaforma “Centri d’Italia”
“Il nostro obiettivo era riempire un vuoto informativo: i dati su questo tema emergono nel corso di un’unica relazione in previsione ogni anno a fine giugno. Aspettiamo, quindi, che il ministero dell’Interno faccia lo stesso: il terzo settore non può sostituire le istituzioni”, ha spiegato Fabrizio Coresi, esperto di immigrazione per ActionAid. “Vorremmo che la migrazione non fosse basata sulla strumentalizzazione e sulla propaganda, ma fosse portata avanti con l’analisi di dati che ci consenta di capire quale è stato l’impatto delle precedenti politiche migratorie”, ha aggiunto inoltre. Stando agli ultimi dati forniti, al 30 novembre 2021, più del 68% dei richiedenti asilo in Italia risiede in un Centro di accoglienza straordinario.
Il restante, ovvero la minoranza, nel Sai. Secondo i numeri forniti dal ministero dell’Interno, lo scorso anno erano presenti 53.664 persone nei Cas, 25.221 nel Sai e 781 nella prima accoglienza. “Sappiamo che sia per i territori sia per le persone in arrivo la migliore forma di accoglienza è quella micro, svolta cioè in centri di piccola o media dimensione”.
Nella realtà, però, questo non avviene. Tra il 2018 e il 2020 il numero dei centri attivi sul territorio è sceso del 25,1%, e sono calati del 40,2% i posti disponibili. Sicuramente questo è dovuto anche alla pandemia, che di fatto ha rallentato gli sbarchi. “Ma a essere stati chiusi sono soprattutto i centri di piccole dimensioni (massimo 20 persone). In questo arco di tempo hanno perso quasi 22mila posti“, hanno spiegato gli esperti. Contemporaneamente, quindi, è calato il numero dei posti disponibili ma è stata aumentata la capacità di capienza nei Cas grandi.
“Non si è approfittato dell’allentamento del ritmo degli sbarchi per avviare una programmazione strutturale sulla migrazione. Al contrario, si individua una spinta verso le grandi concentrazioni. L’opposto di quello che servirebbe”, ha sottolineato Coresi. Le città più grandi, quelle con più di 200 mila abitanti, oggi “ospitano il 18,2% delle persone. Due anni prima la percentuale era pari al 14,2%”.
Immigrazione, gli ultimi dati
Tra l’altro, i centri più piccoli sono quelli che stanno subendo maggiorente i tagli dei fondi attribuiti per le spese di vitto, alloggio e servizi per l’integrazione (-27%). “Abbiamo contabilizzato che in un centro di 50 persone un ospite ha a disposizione 12 minuti a settimana di mediazione linguistico – culturale. Il bando della prefettura prevede la garanzia di 10 ore per tutti gli utenti a settimana. Quindi 600 minuti diviso 50 persone = 12. Il tempo a disposizione – ogni sette giorni – per capire cosa ti sta succedendo”. Tutto questo è stato causato, senza ombra di dubbio, prima da Salvini e poi da Lamorgese. “Prima di Salvini, l’accoglienza funzionava così: il migrante arrivava in Italia dalla frontiera sud, a Lampedusa. Qui incontrava una prima modalità di selezione, che suddivideva i migranti economici dai richiedenti asilo.
Come sappiamo, questi ultimi sono gli unici che possono accedere a un permesso di soggiorno regolare anche se sono arrivati illegalmente. I migranti economici vengono chiusi nei cpr, rimpatriati o respinti. I secondi invece entrano nel circuito dell’accoglienza, o Cas o Sprar. L’inserimento era arbitrario”.
Dopo i decreti sicurezza, però, le cose sono cambiate. “Alla frontiera sud si ripresenta la stessa suddivisione di cui sopra, ma i richiedenti asilo possono entrare solo nei Cas, che diventano così una tappa obbligatoria (a differenza di prima). Restano lì in attesa che la Commissione territoriale incaricata di giudicare la loro storia si pronunci: se ricevono un diniego devono andarsene, se ottengono lo status di rifugiati vengono trasferiti nel circuito Sprar che ora è Sai. Ma il punto è che nel frattempo restano nei Cas, dove vivono un periodo di sospensione esistenziale che li distrugge. Il percorso di autonomia, fuori da lì, si fa sempre più difficile”.
In seguito è arrivato l’intervento di Lamorgese: “Torniamo almeno in parte all’assetto pre-Salvini. Purtroppo però manteniamo un sistema che rischia di essere discriminatorio e non in grado di accompagnare in maniera efficace all’autonomia. Il Sai mantiene infatti due livelli di servizi: alcuni “essenziali” previsti per i richiedenti asilo, ed altri “verso l’integrazione” riservati ai rifugiati.
L’esperienza ormai ventennale del sistema pubblico in capo ai comuni – e la letteratura in materia – ci dicono che la fase iniziale è fondamentale nel prosieguo della vita dei nuovi cittadini. Un’attenzione e un investimento sulla persona che quindi dovrebbe essere messo in atto da subito, senza differenze di status“.
Coresi: “Il problema è a livello comunale”
I comuni “possono applicare il sistema in modo volontario. Tuttavia, l’articolo 118 della Costituzione assegna ai comuni stessi le funzioni amministrative. Quindi perché l’accoglienza non dovrebbe rientrarci di diritto? Il criterio di volontarietà, al contrario, riduce il numero di comuni interessati. Questo è il problema principale. Se l’obbligatorietà non è una via percorribile, consideriamo l’ipotesi incentivi. In passato è successo: nel 2016 c’era una tantum per ogni migrante accolto che andava alle stesse amministrazioni comunali, per esempio. Manca un tavolo programmatico dal 2016. Ci dovrebbe essere una stima dei posti in accoglienza e poi una successiva pianificazione. E delle clausole di salvaguardia: per esempio, il divieto di installare Cas dove è presente la rete Sai. Ma tutto questo non si fa“, ha ribadito poi Coresi”.
Con la loro piattaforma, quindi, propongono un monitoraggio sull’immigrazione che oggi non c’è. “Sarebbe necessario che il ministero adottasse uno strumento simile al nostro: senza dati che consentano l’analisi delle precedenti, su quali basi si elaborano le nuove politiche migratorie?”, ha dichiarato infatti in chiusura.
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