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Dal Gambia all’Italia tramite il Mediterraneo, la storia di integrazione di Yankuba Darboe: “Ora salvo i migranti”

Roma, 15 febbraio 2022 – La storia di Yankuba Darboe è una storia di rivalsa. Yankuba ha 26 anni, ed è arrivato in Italia nel 2014, quando era appena un diciassettenne, attraversando il Mediterraneo in un gommone. Sognava di poter studiare, di laurearsi. E alla fine ci è riuscito. Ha iniziato lavorando in nero nei campi di tabacco a Benevento, si è dato da fare per imparare l’italiano il prima possibile, si è iscritto a scuola e ha conseguito prima la licenza media e subito dopo il diploma in poco tempo. Si è laureato in Scienze Biologiche, all’Università del Sannio. Un traguardo dopo l’altro, è riuscito a integrarsi nella società. E ora aiuta i migranti a salvarsi. Tramite un’intervista al Corriere della Sera ha ripercorso ogni suo passo.

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Migranti, la storia di Yankuba Darboe

Oggi gioca a calcio con l’Atletico Brigante, e ha creato, insieme ad alcuni avvocati e psicologi, Kairasù, un’associazione che si impegna ad assistere i migranti non riescono a entrare nel meccanismo dell’accoglienza. “Arrivare in Italia vivo è stata soltanto una questione di fortuna. Ho attraversato il Mediterraneo su un gommone sgonfio. Eravamo almeno in 100 e l’acqua entrava da tutte le parti. Siamo rimasti alla deriva per 15 ore con il mare agitato. La paura era davvero tanta. Pensavo di morire. Poi è arrivata la nave italiana che ci ha soccorso. Per tutti noi è stata la salvezza. Sarebbero basti altri 30 minuti e saremmo finiti in fondo al mare insieme con i tanti che sono lì e che non hanno neanche un nome”, ha raccontato a Il Corriere. “Avevo 17 anni e ricordo solo la paura. Quel sentimento che le cose potessero andare storte da un momento all’altro mi ha accompagnato per tutti i mesi di viaggio.

Dovevi restare sempre sveglio e attento perché i trafficanti non hanno scrupoli. Potevano rapirti e imprigionarti per chiedere un riscatto o venderti come schiavo. Viaggiavamo anche in 20 su automobili piccole, schiacciati come sardine. Ci sono i confini da varcare, la paura delle polizie locali, il deserto da attraversare. Se sono arrivato vivo è solo perché mi è andata bene. Altri, tanti altri, sono morti prima, tra un confine e l’altro, nel deserto, nei campi libici, in fondo al mare”.

Chi decide di partire, di affrontare il viaggio della speranza, spesso è mosso da un forte senso di disperazione. “Sono nato con le mani legate e sognavo di liberarmi. Io volevo, semplicemente, essere libero di poter studiare, di poter pensare per questo sono partito. Per sfuggire a una dittatura asfissiante. Se iniziavi a dire la tua era la fine. In un paese di poco più di un milione e mezzo di persone bastava un passaparola e potevi sparire. Tutti vivevano con la paura di esprimere il proprio pensiero”, ha spiegato.

Yankuba Darboe e l’arrivo in Italia

Venivi perseguitato se eri parte di un gruppo politico, sociale, etnico, religioso o culturale che non era gradito al dittatore. Sono partito dal Gambia, ho attraversato il Senegal, il Mali, il Burkina Faso, il Niger, la Libia e poi il Mediterraneo, e finalmente l’Italia. Sono sbarcato a Catania e poi sono stato portato a Benevento. Non saprei dire quanto tempo ci ho messo, perché mi sembra un periodo infinito della mia vita, comunque si tratta di mesi”, ha aggiunto inoltre.

“A Catania, tutto il gruppo di persone che erano con me è stato diviso in base all’età. Io sono stato mandato a Benevento. Era estate, le scuole erano chiuse ma io mi sono messo subito a studiare l’italiano. Nei primi mesi ho lavorato nei campi, raccoglievo il tabacco. Qualcosa di disumano. Dalle 6 del mattino alle 7 di sera per 15 euro. Quello non è lavoro. Sempre più spesso ho preferito restare a casa a studiare ma, quando mi servivano i soldi dovevo andare per forza. Poi a settembre è iniziata la scuola. Avrei dovuto seguire solo due giorni a settimana ma io andavo tutti i gironi. Dicevo ai professori che non avevo tempo, dovevo imparare. Così prima ho preso la licenza media, poi il diploma e poi la laurea”.

Infine, ammette, “sono stato fortunato. Nel mio percorso ho incontrato persone disponibili che mi hanno aiutato. Spesso però nel mio mestiere di mediatore culturale ho dovuto affrontare episodi di intolleranza. Il problema sta nel fatto che la realtà migratoria non viene compresa e in questo la politica è colpevole perché punta sulla rabbia per conquistare il consenso. Con l’associazione Karisù mi occupo di migranti che non vengono assistiti, di quelli che restano fuori dai programmi di accoglienza, proprio perché vorrei che anche a loro sia data la possibilità di realizzare la loro vita e di vedersi garantiti i propri diritti”, ha detto in conclusione.

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