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Tassa sui permessi, azione legale di massa per i risarcimenti

Inca e Cgil promuovono ricorsi in tutta Italia per far restituire agli immigrati i soldi incassati ingiustamente dallo Stato. Piccinini: “Basta speculazioni, i cittadini stranieri non sono vacche da mungere”

  +++AGGIORNAMENTO

Stop alla tassa sul permesso di soggiorno, non si paga più

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Roma – 18 maggio 2016 – La tassa sui permessi di soggiorno è illegittima? Allora lo Stato deve restituire agli immigrati i soldi che hanno pagato ingiustamente finora. 

Su questo ragionamento, che a prima vista non fa una piega, si fonda un’azione legale di massa promossa in questi giorni dal patronato Inca e dalla Cgil in tutta Italia. Dieci ricorsi, per conto di altrettanti immigrati o famiglie di immigrati, sono stati già presentati nei tribunali di Bari, Torino, Perugia, Napoli e Roma, da un pool di avvocati coordinato da Vittorio Angiolini e Luca Santini. Solo una prima tranche, ne arriveranno altri, l’obiettivo è costringere il governo, dopo uno stillicidio di condanne, a cancellare quella tassa. 

È la tappa fondamentale di un percorso iniziato nel 2012, quando venne introdotto il contributo per il rilascio e il rinnovo del permesso,   da 80 a 200 euro a seconda della durata del documento. Un ulteriore e più pesante balzello, che si aggiunse ai 16 euro di marca da bollo, ai 30,46 euro per la stampa del tesserino elettronico e ai 30 euro da pagare a poste Italiane per il servizio di raccolta delle domande. 

L’Inca presentò ricorso Tar del Lazio, il Tar si rivolse alla Corte di Giustizia Europea, la Corte di Giustizia, il 2 settembre scorso, ha stabilito che il contributo è” sproporzionato, non giustificato dai costi sostenuti dallo Stato e non in linea con la normativa comunitaria. Rappresenta addirittura un “un ostacolo all’esercizio dei diritti” riconosciuti dalle direttive europee agli immigrati”. 

“Sono passati duecentosessanta giorni da quella sentenza, ma il governo ha fatto finta di niente”, dice Claudio Piccinini, coordinatore degli uffici immigrazione dell’Inca. Intanto, però, il patronato e la Cgil hanno raccolto attraverso i loro sportelli quasi 50 mila richieste di risarcimento e le hanno inviate alla Presidenze del Consiglio e ai ministeri dell’Economia e dell’Interno : “Prima ci hanno tutti risposto che non si ritenevano competenti in materia, infine ci hanno detto di inoltrarle a un altro indirizzo. Solo rimpalli”.

“Ora non ci accontentiamo più di risposte interlocutorie, torniamo davanti ai giudici. Nei ricorsi – spiega Claudio Piccinini – chiediamo il rimborso dei contributi per il rilascio/rinnovo del permesso e che in futuro i ricorrenti non debbano più versarne più. Inoltre vogliamo il pagamento degli interessi  maturati dal 2 settembre, perché c’è malafede dell’amministrazione nel non essersi adeguata alla sentenza”. 

Ogni ricorso ha naturalmente una storia a sé e si basa sui documenti che sono riusciti a raccogliere gli immigrati e chi li ha seguiti, soprattutto copie dei vecchi permessi di soggiorno e ricevute dei versamenti. Si va dalla badante marocchina che chiede indietro 100 euro alla famiglia albanese che spera di recuperarne 1300. L’Inca paga gli avvocati, ma i ricorrenti si accollano il contributo unificato. 

“Il costo della causa, in molti casi, è maggiore di quello che si recupererà” fa notare la presidente dell’Inca Morena Piccinini. “Questo significa che quelli che stanno facendo ricorso lo fanno per senso civico, per senso dei diritti, ma ci fa capire anche perché il governo non risponde alle nostre richieste di risarcimento. L’immigrato può farsi valere solo rivolgendosi a un tribunale, ma se si muove da solo non gli conviene. I soldi versati finora ingiustamente, messi insieme, fanno però una cifra enorme”.  

Secondo la presidente dell’Inca questa è l’ennesima speculazione sugli immigrati, trattati come “vacche da mungere”. “Si approfitta anche economicamente della necessità dei cittadini stranieri di essere in regola con i documenti, moltiplicando  l’esborso con la frequenza dei rinnovi. Oltre a incassare dagli immigrati in tasse e contributi più di quanto restituisce loro, l’Italia ‘fa la cresta’, pretendendo soldi che non avrebbe titolo di chiedere. Se si facesse una cosa simile agli italiani, prenderebbero i forconi…” 

Possibile che dopo la sentenza, magari incontrando i sindacati, il governo non abbia spiegato se e come vuole adeguarsi? “Questo governo evita il confronto con i corpi intermedi, nei tavoli che abbiamo avuto con il ministero dell’Interno i nostri interlocutori hanno solo preso atto del problema, senza impegnarsi a risolverlo” racconta Kurosh Danesh, responsabile del dipartimento immigrazione della Cgil. 

“Sui manifesti che abbiamo fatto stampare, c’è scritto ‘Stai pagando una tassa ingiusta’, perché il punto è proprio questo. Il lavoratore immigrato – sottolinea Kurosh –  paga già tasse e contributi come gli italiani, e intanto guadagna meno degli italiani, se è donna anche un terzo un meno. A tutto ciò non si può aggiungere una palese ingiustizia, con il governo che ignora una sentenza di alto livello, smentendo con i fatti quello che va predicando sull’immigrazione. Andremo fino in fondo perché la giustizia sia ripristinata”. 

Elvio Pasca

 

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