L’intervento del coordinatore del "Dossier Statistico Immigrazione" Caritas e Migrantes Roma, 26 ottobre 2010 – La presentazione del 20° rapporto sull’immigrazione della Caritas e della Fondazione Migrantes può prendere l’avvio da due constatazioni. Dal 1990, anno al quale si riferiscono i primi dati del “Dossier”, l’immigrazione è cresciuta di 10 volte, arrivando a quasi cinque milioni di presenze regolari. La seconda constatazione è di segno inverso: nel frattempo è cresciuto l’atteggiamento di chiusura nei confronti degli immigrati, sia da parte dei vertici politici sia da parte della base, complice da ultimo anche la crisi economica ed occupazionale.
La contrapposizione “Aumento dell’immigrazione – Aumento della chiusura” può essere uno schema utile per sintetizzare i dati più significativi del nuovo “Dossier”, con una particolare attenzione a quanti sono portati a ritenere gli immigrati un male supplementare per l’Italia, senza rendersi conto che l’avversione nei loro confronti non solo si discosta dalla dottrina sociale della Chiesa cattolica, ma va anche contro gli interessi del paese.
Questa è la tesi che il nuovo “Dossier” consente di argomentare con dati affidabili, partendo dalla insoddisfacente situazione economica e occupazionale per soffermarsi, poi, sull’apporto degli immigrati e sulla gestione delle differenze in una società multiculturale.
La situazione socio-occupazionale dell’Italia non è soddisfacente
Chi ha vissuto la sua gioventù negli anni del dopoguerra, un periodo caratterizzato da un livello più basso di benessere, li ricorda come gli anni della speranza, della creatività, dell’investimento sul futuro, sia quando si continuava ad andare all’estero, sia quando, specialmente a partire degli anni ’70, si rimpatriava per mettere a frutto l’esperienza fatta e i risparmi messi da parte.
Il 2009 è stato un anno particolarmente difficile, in cui l’andamento economico è stato negativo, è crollata la produzione e sono aumentati i disoccupati (oltre la soglia dei 2 milioni) a seguito dei pesanti effetti della crisi internazionale. Ma l’introduzione al “Dossier” curata dal Comitato di Presidenza della Caritas e della Migrantes sottolinea che, ormai, non si tratta solo di un male congiunturale.
Il nostro sistema economico è da tempo in difficoltà, impossibilitato a ricorrere alle svalutazioni della moneta dopo l’introduzione dell’euro, a esportare nel mondo prodotti a basso costo, così come riescono a fare i paesi emergenti, e a ridurre l’enorme peso della spesa pubblica. Infatti, è andato peggiorando il rapporto tra Pil e debito pubblico, pari al 95,2% nel 1990, al 109,2% nel 2000 e attualmente attorno al 118%, il livello più alto tra tutti gli Stati membri dell’UE. Al contrario, è costante la diminuzione nella crescita del Prodotto interno lordo: 3,8% negli anni ’70, 2,4% negli anni ’80, 1,4% negli anni ’90. Nell’ultimo decennio il tasso medio di crescita è stato dello 0,3%, mentre nel biennio 2008-2009 il Pil è crollato del -6%.
L’Italia non regge il passo degli altri grandi paesi europei per quanto riguarda la modernizzazione del sistema e lo sviluppo tecnologico: nel periodo 1980-2009 l’aumento medio annuo della produttività è stato di appena l’1,2% e ha influito negativamente sulla crescita del Pil, sull’aumento delle retribuzioni e anche sugli investimenti esteri (22 miliardi di euro l’anno in entrata contro 32 in uscita), scoraggiati anche da una pesante burocrazia. Rispetto al passato, è diventata meno brillante anche l’affermazione delle imprese italiane all’estero, senza che questa perdita sia stata compensata dalla delocalizzazione delle produzioni, che rischiano di farci diventare un paese più consumatore che produttore e, quindi, dotato di scarse risorse.
A fronte di questo quadro, tracciato con realismo, bisogna chiedersi se l’immigrazione sia un’opportunità o un ulteriore appesantimento. Il “Dossier” aiuta a sciogliere la riserva in senso positivo.
Non è concepibile il futuro dell’Italia senza lavoratori immigrati
Gli immigrati sono stati utili per rimediare alle carenze di manodopera in diversi settori. Si tratta all’incirca di due milioni di persone, che incidono per circa il 10% su tutti gli occupati. L’inserimento è avvenuto in misura massiccia nel settore familiare, in edilizia e in agricoltura, e in misura comunque consistente in molti altri comparti. Nel mese di settembre 2009 sono state presentate quasi 300 mila domande per la regolarizzazione delle posizione degli immigrati presso le famiglie, ma il loro contributo è fondamentale su un piano più generale, come ha ricordato alcuni mesi fa il primo sciopero degli immigrati in Italia.
Innanzi tutto, questi lavoratori svolgono una funzione complementare rispetto agli italiani, ai quali indirettamente garantiscono più soddisfacenti opportunità occupazionali. Basti pensare che 4 immigrati su 10 sono occupati a livello inferiore rispetto alla loro formazione, svolgono le prestazioni in orari disagiati (di sera, di notte e di domenica) e percepiscono una retribuzione più ridotta rispetto agli italiani (mediamente al mese 971 euro, -23%).
Il loro apporto alla creazione del Prodotto Interno Lordo è notevolmente superiore alla loro consistenza numerica; essi incidono per il 7% sulla popolazione residente, dichiarano al fisco annualmente 33 miliardi di euro e incidono per più dell’11% sulla produzione della ricchezza.
Il confronto tra spese sociali per gli immigrati e tasse e contributi da loro pagati, va a vantaggio delle casse statali: si tratta in attivo di almeno un miliardo di euro l’anno, sicuramente molto di più se dalla semplice ripartizione delle spese sociali pro-capite si passa alla metodologia di calcolo basata sui costi aggiuntivi o marginali. I lavoratori immigrati assicurano un grande supporto al sistema pensionistico perché pagano annualmente 7,5 miliardi di contributi previdenziali ed essendo ridotto il flusso degli immigrati che vanno in pensione, gravano in misura minimale sui bilanci previdenziali. Trattandosi di una popolazione giovane, con appena il 2,2% di ultrasessantacinquenni (tra l’insieme della popolazione residente 20,2%), questi benefici, seppure non nella stessa misura, sono destinati a durare: attualmente è pensionato 1 immigrato su 30 (tra gli italiani 1 su 4), mentre nel 2025 sarà pensionato 1 immigrato ogni 12 (e tra gli italiani 1 su 3).
Gli immigrati non solo occupano i posti loro offerti dagli italiani ma essi stessi ne creano con le loro imprese (213.267 a maggio 2010, con un tasso di crescita del 13,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente). Tra titolari, soci, figure societarie e dipendenti, l’imprenditoria degli immigrati coinvolge più di mezzo milione di persone. Gli immigrati potrebbero essere di maggior supporto al “sistema Italia” ma in parte ne sono impediti da una rigidità normativa disfunzionale. La difficoltà nell’acquisire un titolo di soggiorno stabile pregiudica la concessione dei mutui, nel quale la quota degli immigrati dal 10% di alcuni anni fa è scesa al 6,6%, e incide negativamente sulla possibilità di costituire nuove imprese o di inserirsi nel mercato della compravendita degli immobili. Il periodo di sei mesi, concesso ai disoccupati per trovare un nuovo posto di lavoro, è eccessivamente ristretto nella patria del lavoro nero (che secondo l’Istat incide per il 12,2% sul totale del lavoro in Italia), anche in considerazione degli ulteriori effetti negativi recati dalla crisi occupazionale.
Servono passi in avanti non solo a livello legislativo ma anche a livello di mentalità per inquadrare in maniera adeguata la nuova società multiculturale, portatrice di differenze e, soprattutto, di possibili nuove sinergie.
Una società multiculturale trova coesione nell’integrazione
L’Italia è indubbiamente una società fortemente multiculturale, con più della metà degli immigrati che vengono dall’Europa (53,6%) e gli altri dai restanti paesi del mondo (Africa 22%, Asia 16,2%, America 8,1% e Oceania 0,1%). Gli immigrati hanno assunto nella nostra società una forte visibilità, in maniera più accentuata in diverse regioni del Nord (61,6%) e del Centro (25,3%), ma in maniera non trascurabile anche nel Meridione (13,1%). Nel complesso, essi incidono per il 3,5% sulle imprese (ma il doppio su quelle artigiane e con una forte presenza anche in quelle cooperative), per il 7% sui residenti, per il 7,5% sugli iscritti a scuola, per il 10% sugli occupati (con 147 mila nuovi assunti nel 2009), per il 13% sulle nascite, per il 15% sui matrimoni.
I numeri devono indurci maggiormente alla riflessione. Gli immigrati iscritti come residenti nelle anagrafi comunali sono 4 milioni e 235 mila, ai quali ne vanno aggiunti altri 686 mila che verranno registrati in ritardo, inclusi i regolarizzandi. I minori sono quasi un milione (932.675), più di mezzo milione sono i cittadini stranieri nati in Italia (572.720) e poco meno gli immigrati diventati cittadini italiani nel corso del tempo. Ogni giorno 70 italiani si sposano con un cittadino straniero, 163 stranieri diventano cittadini italiani, nascono 211 figli da genitori stranieri e, quotidianamente, è di origine immigrata 1 abitante ogni 14 e un disoccupato ogni 10.
È una constatazione, quindi, che l’Italia sia una società multiculturale. Anche nel biennio 2007-2009 gli immigrati, nonostante la crisi, sono cresciuti di quasi un milione di unità. Tuttavia, il fatto che l’aumento sia intervenuto in un ristretto spazio di tempo (all’inizio del 1990 non erano neppure mezzo milione), ha generato in diversi senso di timore e in altri una sindrome da invasione. Per di più, andando al di là della realtà statistica, comunemente si è arrivati a pensare che gli immigrati siano 15 milioni e per lo più irregolari (Ricerca “Transatlantic Trends 2009”): non è così, anche se i trafficanti di manodopera imperversano con un volume d’affari che, secondo l’Onu, raggiunge i 2,5 miliardi di dollari.
È necessario correggere le informazioni sbagliate o parziali e superare i pregiudizi per vincere le riserve nei confronti della società multiculturale nell’ottica della interculturalità. Le tendenze centrifughe possono essere composte attraverso la strategia dell’integrazione o dell’interazione o dell’inclusione (i termini sono meno importanti rispetto al concetto). Gli immigrati sono chiamati a non isolarsi e a partecipare alla vita della società che li ha accolti, condividendone regole e obiettivi (come, a dire il vero, fa la stragrande maggioranza), ma hanno anche diritto a essere accolti, rispettati e valorizzati su un piano di uguaglianza.
Manca ancora in Italia questa decisa volontà di accoglienza, quella che chiedevamo quando eravamo un popolo di emigranti. Significativo è il riferimento della Germania che, a partire dal 2005, superando il modello di una immigrazione temporanea, ha varato un impegnativo piano di integrazione supportato da consistenti risorse, che riserva ad ogni nuovo venuto 900 ore di insegnamento gratuito della lingua tedesca.
Anche in Italia, nel mese di giugno 2010, è stato varato un piano interministeriale per l’integrazione (denominato “Identità e incontro”), che presenta diversi spunti di interesse ma che non è stato preceduto da un ampio coinvolgimento delle forze sociali, come è accaduto nella Repubblica Federale, ed è dotato di minori risorse. Giustamente si insiste, tra le altre cose, sull’apprendimento dell’italiano. Nel comune di Roma, secondo uno studio della Rete Scuole Migranti, a studiare l’italiano sono annualmente circa 15 mila persone, di cui quasi la metà presso strutture del privato sociale, bisognose – come è intuibile – di un maggiore supporto; altri 5 mila immigrati aspettano, per inserirsi in questi corsi, di ulteriori possibilità. Tra le difficoltà supplementari bisogna menzionare, a livello economico, la certificazione del livello di apprendimento richiesta nel sistema del permesso di soggiorno a punti (che non sembrerebbe equo addossare agli interessati) e, a livello di mentalità, il rischio che l’apprendimento dell’italiano venga sentito dagli immigrati più come una minaccia che un’opportunità. Nel passato, a livello nazionale, si era arrivati ad assegnare fino a 100 milioni di euro per l’integrazione degli immigrati, mentre attualmente lo stesso importo caratterizza solo l’ammontare delle tasse che gli immigrati annualmente pagano per i permessi di soggiorno e le pratiche di cittadinanza (nel primo caso, sopportando notevoli lentezze burocratiche, e nel secondo caso senza la garanzia che la pratica vada a buon fine). Nel documento interministeriale sull’integrazione, anche in questo caso giustamente, si ipotizza la necessità di superare il divieto che impedisce ai cittadini stranieri di accedere ai posti pubblici, superando la contraddizione per cui chiediamo loro di identificarsi con la società italiana ma li teniamo lontani dalla realtà pubblica. Si innesta qui il discorso fondamentale della necessità di una loro partecipazione più ampia e anche del riconoscimento del diritto al voto amministrativo.
Nel documento interministeriale viene sollevata anche la questione delle pari opportunità da attribuire agli immigrati, rispetto alla quale i rappresentanti degli immigrati lamentano dei ritardi. Ad esempio, il cosiddetto “bonus bebé” è stato ripetutamente limitato alle famiglie italiane, mentre le famiglie degli immigrati devono sostenere da sé i 9.000 euro annui mediamente necessari per la crescita di un figlio. Anche l’accesso all’edilizia residenziale pubblica viene sottoposto a un numero così elevato di anni di residenza da restringere sostanzialmente la cerchia dei possibili beneficiari immigrati. Ancora più significativo è il caso dei rom, per principio considerati nomadi (ma spesso sedentari) e destinati ai campi. A Milano, ad esempio, non è andato in porto il piano, con così grande impegno preparato dalla Curia ambrosiana e dal mondo sociale, di assegnare loro 25 case comunali.
In conclusione, serve una mentalità rinnovata. L’obiettivo dell’integrazione è difficile ma irrinunciabile, richiede l’impiego di maggiori risorse e, ancora di più, è necessario un atteggiamento più aperto verso gli immigrati nella consapevolezza che essi sono indispensabili per sostenere l’andamento demografico negativo dell’Italia. Nell’ultimo decennio, a fronte di un aumento di 2 milioni degli ultrasessantacinquenni, le persone in età lavorativa sono cresciute di solo 1 milione di unità e i minori fino a 14 anni solo di mezzo milione di unità. A metà secolo, secondo le previsioni di Istat e di Eurostat, con l’ipotesi di “immigrazione zero” l’Italia perderebbe un sesto della sua popolazione. Continuando i ritmi riscontrati in questo decennio, nel 2050 gli immigrati supereranno i 12 milioni e incideranno per il 18%. Questo aumento non sarà una minaccia bensì una garanzia per la popolazione italiana, di cui un terzo avrà superato i 65 anni. In moltissimi comuni i figli degli immigrati incideranno sulla popolazione scolastica per il 30% o più, come già avviene in diversi Stati membri dell’UEe, a quel punto, bisognerà aggiornare le strategie per il mondo della scuola. Gli africani, che ora sono poco meno di 1 milione, a seguito dell’esplosione demografica del loro continente raggiungeranno i tre milioni, come la Caritas e la Migrantes hanno posto in evidenza in un recente volume pubblicato dal Fondo Europeo per l’Integrazione, che fa capo in Italia al Ministero dell’Interno.
La parola d’ordine è “inclusione”. Il vantaggio sarà reciproco in Italia e, inoltre, gli effetti positivi si riverseranno anche sui paesi di provenienza tramite le rimesse (6 miliardi e 753 milioni di euro nel 2009). In Italia, attualmente i fondi vengono utilizzati in gran parte per le azioni di contrasto: secondo una stima riportata nel “Dossier” si tratta circa mezzo miliardo di euro a carico del Ministero dell’Interno e 2 miliardi di euro a carico del Ministero della Giustizia. Servono più risorse sia per l’inserimento dei quasi 5 milioni di immigrati in posizione regolare, sia per i richiedenti asilo (17.670 nel 2009, meno della metà rispetto ad altri grandi paesi europei), rendendo più incentivanti le vie legali dell’immigrazione legale e i percorsi di integrazione.
Il “Dossier Statistico Immigrazione” della Caritas e della Fondazione Migrantes da 20 anni si batte per diffondere questa cultura dell’altro: l’ampliamento di questa campagna di sensibilizzazione sarà una maniera molto concreta per preparare l’Italia del futuro.