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Una giornata a Rosarno

Quali sono le ragioni che hanno portato la civile convivenza a collassare? Quali risposte contro para schiavismo e crisi verticale del settore agricolo?

Rosarno, 17 febbraio 2010 – Il viaggio dalla stazione centrale di Reggio Calabria, dura circa un’ora e 20. Il treno è una carretta che si ferma a tutte le stazioni. Gli scompartimenti  scarseggiano in pulizia ma non di gentilezza da parte degli altri viaggiatori calabresi: un tratto comune a tutte le età e che mal si concilia con la cattiva fama di una terra in odore di controllo da parte della criminalità organizzata.

Il percorso si snoda lungo la bellissima costa calabrese, quella che passa per la piccola perla di Scilla, dirimpettaia della rupe siciliana di Cariddi sedi, nella mitologia greca, di due terribili   mostri usi ad attaccare le imbarcazioni che ardivano attraversare il canale di Sicilia, il primo strappando i marinai dalla coperta delle navi mentre il secondo risucchiava i vascelli in un vortice marino.

Il treno passa poi per Bagnara e Palmi per poi entrare nella piana di Gioia Tauro al centro della quale è ubicata la collina su cui è adagiato Rosarno. Il paese è arroccato su di una altura che si affaccia come un balcone naturale sul Porto di Gioia Tauro e sulla pianura circostante. La città ha oggi circa 16 mila residenti ed una storia antichissima. Le sue origini risalgono all’antica colonia greca di Medma, fondata dai locresi alla fine del VI secolo prima di Cristo.  La prima notizia certa riguardante Rosarno, comunque, è del 1037, il cui nome, di origine bizantina (dal patronimico Rousare)si incontra appunto in un codice napoletano di quell’anno.

Rosarno fu completamente distrutta dal terremoto del 1783, che causò oltre 60.000 vittime nell’intera Calabria oltre a radere al suolo Messina. Poi fu il turno della malaria, una furia distruttrice che allora decimò il resto della popolazione. Il territorio fu bonificato ad inizio ‘800 con l’opera di  migliaia di lavoratori   provenienti dai paesini del Monte Poro, e dal Cosentino, tutti raggruppati in un villaggio in riva al mare, che prese il nome nel 1831 di San Ferdinando. 

Completata nel corso dei decenni, la bonifica della Piana di Rosarno produsse gli effetti sperati, trasformando un’area acquitrinosa e insalubre in un territorio fertile e lussureggiante, a tal punto da rendere possibile l’impianto di colture agricole pregiate, quali quelle agrumicole ed olivicole. Grazie alle accresciute potenzialità economiche, nel corso degli anni Rosarno vide incrementare progressivamente la popolazione, divenendo punto di riferimento per migliaia di lavoratori provenienti dai paesi vicini e dalla zona ionica, e più di recente di lavoratori immigrati.

Il paesaggio è lussureggiante e testimonia dell’estesa presenza di oliveti ed agrumeti, e di kiwi da quando il prezzo di base degli agrumi raccolti è precipitato a meno di 25 centesimi al chilo.

Secondo le testimonianze di produttori e lavoratori locali, il dramma di  Rosarno sta tutto qui: nel crollo dei prezzi delle produzioni agricole e nell’incapacità delle aziende di saper diversificare il prodotto e puntare sulla qualità, per far fronte alla globalizzazione, ripiegando sullo sfruttamento intensivo della manodopera, al limite dell’umano sopportabile.

Un sfida persa, però, che non riguarda certo solo Rosarno o solo la Calabria, come non si stanca di ripetere Stefano Mantegazza, segr. Generale della UILA -Uil.

Oggi, 17 febbraio, all’auditorium di  Rosarno si sono dati appuntamento i quadri sindacali del settore agricolo a livello nazionale: della Uila, della Fai e della Flai. Obiettivo: non dimenticare i fatti di inizio gennaio: la rivolta degli immigrati, la reazione della popolazione e l’epilogo drammatico per migliaia di lavoratori stranieri africani obbligati ad andarsene. E per non dimenticare che le cause che hanno prodotto la rivolta e successiva frattura sociale  sono ancora presenti ed attuali. La guerra tra poveri può di nuovo accadere se non si interviene sui motivi che l’hanno scatenata. E se questo è vero per Rosarno, può esserlo per molte altre parti in Italia.

"Il dramma che si è consumato a Rosarno e che riguarda, nell’indifferenza più assoluta, tante aree agricole del nostro paese, spiega il dirigente sindacale, ha una diversa spiegazione da quella che vorrebbe tutti gli immigrati clandestini e violenti e tutta la popolazione di Rosarno razzista e succube della ‘ndrangheta: la verità è che c’è una parte rilevante dell’agricoltura italiana che è progressivamente andata fuori mercato, che non è in grado di riconvertirsi e si illude di poter vincere la sfida imposta dalla globalizzazione riducendo salari e tutele oltre il limite dell’immaginabile".

All’uscita dall’edificio delle FS, piccolo e spoglio, malgrado la cittadina sia uno snodo ferroviario importante per la Calabria, il paese si arrampica su per la collina. Non c’è autobus a portarci al  centro storico, ma fino all’auditorium dove è in corso l’attivo sindacale sono poche centinaia di metri e si possono percorrere a piedi con un po’ d’esercizio.

E’ trascorso più di un decennio da quando le assemblee indette dall’ex sindaco Peppino Lavorato vedevano l’auditorium di Rosarno gremito dai suoi cittadini ed immigrati africani, per cercare insieme la strada di una non facile integrazione, nel rispetto dei diritti della persona. Oggi, sembra passato un secolo, e quella strada sembra essersi ad un tratto smarrita nella rivolta  degli  immigrati e nella caccia allo straniero promossa da balordi locali, fino all’epilogo drammatico degli autobus che portavano via centinaia di lavoratori immigrati.

Per le strade circolano tranquillamente immigrati est europei ed è possibile incontrare qualche maghrebino, ma di stranieri africani quasi nemmeno l’ombra. Gli italiani, in gran parte, sono dentro le loro case, tranne qualcuno in via Roma o nella piazza del Duomo.

Spiega Hassan El Mazi, resp.le ufficio immigrazione UIL di Reggio Calabria: <Non è che gli africani non ci siano. Certo la maggior parte di quelli coinvolti nei disordini un mese fa, gli immigrati dell’Africa Sub- Sahariana, sono stati portati via dalla polizia. Ma molti stanno già ritornando alla spicciolata, richiamati da quelli stessi caporali che li hanno sfruttati per mesi pagando la loro giornata 15 o venti euro. Sono quelli che vivevano ammassati nell’ex cartiera di Rosarno o nelle strutture dell’ex Opera Sila, lungo la statale 18”.


Per gli altri, secondo il quadro sindacale UIL di origine marocchina, non ci sono stati grandi problemi, “in quanto vivono nelle case e lavorano in altri settori”.

Pasquale Papiccio, dirigente nazionale della UILA è convinto di una cosa: “il razzismo non ha nulla a che vedere, o quasi, con i fatti di Rosarno”. “C’entra la crisi verticale del settore agricolo, l’incapacità delle istituzioni nazionali e locali di aiutare questo settore a riconvertirsi ed a diversificare la produzione, c’entra l’assenza di controlli che le autorità preposte dovrebbero fare per combattere il lavoro nero e forme gravi di sfruttamento”.

Hassan entra nel dettaglio: “negli ultimi anni il prezzo pagato per le arance ai produttori è sceso da circa 1500 lire a meno di 30 centesimi al chilo. Di fronte a questa situazione molti agricoltori hanno smesso di produrre e incassano il sussidio europeo che viene comunque pagato con un meccanismo sganciato dalla produzione. Altri hanno abbassato al massimo  il salario giornaliero pagato per la raccolta. Oggi rischi di lavorare fino a 14 ore al giorno e guadagnare 20 euro, dopo che hai pagato la quota <dovuta> al caporale”.

“In questa situazione, non è detto che riesci a lavorare tutti i giorni: dunque, smetti di mandare i soldi a casa e non sempre hai abbastanza per mangiare e sei costretto a vivere in condizioni disumane. Ma non riesci ad uscire da questa trappola perché non hai soldi nemmeno per viaggiare: insomma, una bomba ad orologeria che, prima o poi, scoppierà”.

“Tra gli immigrati che arrivano qui per lavorare, commenta un sindacalista della FAI, ci sono anche molti stranieri  che hanno perso il lavoro nelle fabbriche del Nord: prima hanno cercato di trovarne un altro ma, una volta perso il permesso di soggiorno, prima della sconfitta del ritorno a casa, c’è l’inferno delle mille Rosarno, in agricoltura, come in edilizia, come in altri settori”.

“Non sono sicuro, continua Papiccio, che la criminalità organizzata c’entri davvero nello scoppio dei disordini. E’ più probabile che la situazione che abbiamo descritto, sia esplosa improvvisamente  a causa del comportamento di alcuni balordi locali che si sono messi a giocare al tiro a segno con gli africani. Però, quello che in un’altra situazione si sarebbe risolto con un intervento puntuale della polizia, si è trasformato in una grave rivolta a causa della situazione esplosiva presente da tempo, conosciuta e tollerata da tutti”.

“La criminalità c’entra sicuramente con i traffici di permessi di soggiorno (2 o 3000 euro per avere un visto d’ingresso per lavoro stagionale), che spesso sono vere e proprie truffe in quanto quando l’immigrato arriva qui rischia di non trovare l’impresa (che spesso esiste solo sulla carta) e finisce nella palude del lavoro nero da cui è difficile poter uscire”.

La piaga delle imprese fittizie, ci viene raccontato, è abbastanza estesa in alcune province della Calabria (e non solo in questa regione): servono a prendere i contributi europei ed a trafficare sulle giornate di lavoro. Se un lavoratore giunge a 51 giornate regolari ha poi diritto ai contributi e alla disoccupazione, quindi è spesso disposto a pagare lui stesso imprese fantasma che assumono per quelle giornate e versano i contributi pagati dallo stesso lavoratore, in cambio naturalmente della propria fetta di guadagno. Ma lavoro vero ce n’è poco.

Commenta Hassan: “il meccanismo è un vero  circolo vizioso che si alimenta di irregolarità ed illegalità. Di fatto è a prova di bomba in quanto non è interesse di nessuno interrompere un circuito che porta soldi, soprattutto alle imprese fantasma. Se si decide di controllare se chi lavora è in regola, si rischia  di spingere al blocco delle attività quelle poche aziende che ancora producono, in quanto finirebbero per andare in perdita”.

“C’è poi il problema dei rumeni, continua Papiccio, che non vogliono essere regolarizzati e preferiscono rimanere in nero e guadagnare qualche euro in più”.

L’aspetto forse  più grave di un meccanismo infernale che produce scarsa redditività e condizioni di semi schiavismo per migliaia di persone, è la virtuale assenza del controllo da parte delle autorità dello stato che, da una parte dovrebbero aiutare quell’economia a riorientarsi , ad investire e a diversificare, ma dall’altra dovrebbe anche vigilare sui gravi reati in atto contro i diritti fondamentali della persona che vengono commessi nel disinteresse generale.

Per Stefano Mantegazza serve un giro completo di boa. “Occorre in primo luogo, ri-orientare la politica agricola nazionale. Un compito arduo però, perché il governo attuale ha mostrato, nei fatti, il suo totale disinteresse verso la materia e il ministro preposto è brillato per la sua assenza e la sua totale impotenza. L’ultima dimostrazione è l’iter parlamentare del ddl sulla competitività del settore o, ancor più, l’atteggiamento del governo sulla questione del futuro del settore bieticolo saccarifero: senza i finanziamenti promessi, ma finora negati, quest’anno le bietole non verranno seminate e le aziende di trasformazione chiuderanno definitivamente i battenti, andranno in fumo migliaia di posti di lavoro insieme ad un altro pezzo della ricchezza del paese. A questa situazione occorre reagire con determinazione.  Il sistema agro alimentare, tutto insieme, deve imporre al governo un cambio di passo e di strategia; deve pretendere una politica agricola che selezioni scopi e destinatari dei sostegni e degli investimenti pubblici, che valorizzi le risorse migliori e le opportunità più promettenti, perché nel mondo globalizzato nessuna economia nazionale può pensare di competere con tutti e su tutto. Noi dobbiamo puntare sulla qualità dell’agro – alimentare, dove contano di più la creatività, il capitale umano ed il lavoro”.   

E’ in fondo questo che sono venuti a dire i sindacati confederali dell’agricoltura, oltre a portare solidarietà ai lavoratori del posto, italiani e stranieri assieme: "un settore, come quello agricolo, che dà lavoro a molte migliaia di persone, non può essere lasciato a se stesso. Perché, senza investimenti ed innovazione capaci di far fronte alla sfida della globalizzazione, quello che resta per molte aziende nel territorio è tirare a campare, magari a danno di esseri umani prigionieri nella trappola del lavoro nero e della clandestinità".

E’ un messaggio che va ascoltato se non vorremo avere, e presto, altre Rosarno.

Giuseppe Casucci

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