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Il mediatore culturale, un mestiere controverso

Un ponte fra culture, costretto a precariato e incertezza. La professione che si impara dal vissuto 

Roma – 8 maggio 2008 – Sulla figura del mediatore culturale o interculturale ci sono opinioni controverse, definizioni disparate, punti di vista contrapposti. Per qualcuno indispensabile, per altri inutile, da quando esiste ha fatto aprire non poche dispute. Ed è per questo che da poco è nato un apposito sindacato.

Necessaria o no, su una cosa tutti sono d’accordo: si tratta di una figura “ponte”, che fa da tramite tra culture, che sta tra l’immigrato e uno sportello della Prefettura, un ospedale, un patronato, un centro d’accoglienza. Oppure si pone tra la cattedra e una classe multietnica, sia per facilitare l’inserimento dei bambini stranieri, sia per raccontare alle nuove generazioni di italiani i motivi dell’emigrazione, le realtà che si vivono in Paesi meno fortunati, oltre che le culture “altre”. Perché conoscere le diversità senz’altro aiuta ad abbattere i pregiudizi.

Una persona insomma che dev’essere munita di numerose caratteristiche, sia personali che formative. E già qui si presenta il primo dei problemi. Cosa serve per essere mediatore interculturale in Italia? Spiega Klodiana Cuka, una delle tre donne immigrate che l’Ugl ha posto alla guida del Coordinamento nazionale del neonato sindacato dei mediatori interculturali: “Tanto per cominciare bisogna averne le attitudini: l’empatia, il saper comunicare e interagire con gli altri, riuscire a comprendere e a farsi capire con facilità, conoscere più di una lingua e più di una cultura, avere un percorso migratorio alle spalle. A tutto ciò va aggiunto un percorso formativo adeguato”.

Ma non tutti sono d’accordo sul fatto che il mediatore debba essere tutto questo. “Qualcuno crede che facciamo gli interpreti – dice Steve Emejuru, del mestiere sin dai primi anni ’90 -, il mediatore linguistico è una figura a sé stante, io non sono tenuto ad essere entrambe”.

Si presenta poi un’altra questione controversa. Può un mediatore interculturale essere adatto a ogni settore che necessita di una figura simile? Colui che sta tra i bambini a scuola, può essere altrettanto efficiente in un ospedale o in un carcere? La risposta più comune è no. Perché, ad esempio, “un conto è raccontare ai giovani le proprie esperienze e trasmettere il bagaglio culturale di chi sta a metà tra due culture – spiega ancora Steve Emejuru –, un altro è assistere una donna musulmana nel difficile rapporto che ha con medici e strutture sanitarie italiane”.

“A oggi – dice Clarisse Niagne Essane, un’altra delle tre donne del Coordinamento nazionale del nuovo sindacato dell’Ugl – i corsi per diventare mediatore non fanno distinzione tra i diversi settori di impiego. Al massimo si fanno dei cenni settoriali ma questo non è sufficiente”. Klodiana Cuka parla addirittura di necessità di specializzazioni nelle specializzazioni. “Nel settore sanitario – spiega – un conto è lavorare in corsia, altro alle Asl. Anche nelle scuole devono esserci delle suddivisioni per macroaree, dunque mediatori specializzati per un determinato gruppo di etnie”.

Ma prima ancora della necessità di corsi divisi per settori, c’è il problema della non omogeneità dei percorsi formativi. Alcuni hanno una durata di 200 ore, altri di 1200. Si intende che alcuni sono affidabili, altri meno, e soprattutto che quelli riconosciuti da una Regione italiana non lo sono in un’altra. “Purtroppo i corsi sono diventati un business – fa notare Klodiana Cuka –, ci si può fidare principalmente di quelli regionali, che tra l’altro sono gratuiti. Ma è fondamentale che vengano unificati i moduli formativi, la durata e la metodologia, che vengano gestiti dal Ministero, in modo che possano essere spendibili a livello nazionale e magari, in un futuro, anche europeo”.

Negli ultimi anni sono nati anche dei corsi universitari di mediazione culturale. Anche questo ha scatenato un po’ di polemiche. Secondo qualcuno, infatti, questo mestiere dovrebbe essere di assoluto (o quasi assoluto) dominio degli immigrati, “gli unici – a parere di Cuka – a poter comunicare davvero con altri immigrati soprattutto in situazioni delicate. Perché c’è reciproca solidarietà e si eviterebbe la diffidenza che spesso contraddistingue i rapporti con gli italiani”.

C’è da considerare anche il fatto che questo è ritenuto dagli stranieri l’unico lavoro “di qualità” che possono svolgere senza che un italiano li scavalchi e senza la necessità di compiere il lungo (spesso impossibile) percorso del riconoscimento della propria laurea o professione. E sostanzialmente, sono del parere che all’università non si impara una cultura, non si insegna il cammino pieno di ostacoli del migrante e neppure la fame o la dittatura che spinge a scappare dalla propria Patria, lontano dai familiari.

Alle scuole Steve Emejuru propone quattro progetti: “vita sociale in Nigeria, la quotidianità della comunità”; “la diversità e i punti di incontro”; “perché gli africani lasciano l’Africa, realtà socio-politica nel continente africano”; “i ritmi della vita, l’educazione attraverso il ritmo della musica, del canto, del ballo”. Racconta che quando c’è la sua ora, i bambini vogliono andare a scuola anche se stanno poco bene. La sua gioia è vedere i risultati del suo impegno riflessi nei loro occhi e nell’interesse che dimostrano. “Non ci sono testi capaci di insegnare il lavoro del mediatore interculturale – dice Steve -, si può imparare solo dal proprio vissuto. Anche perché, secondo me, questa non è una professione vera e propria, ma piuttosto una missione”.

Antonia Ilinova

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