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Cassazione: “Dà una mano in casa? È una dipendente”

Difficile provare che una collaboratrice domestica aiuta gratis per motivi affettivi. La sentenza Roma – 27 agosto 2008 – È presumibile che chi dà una mano con le faccende di casa sia un lavoratore dipendente, e quindi gli vanno riconosciuti stipendio e contributi. Per dimostrare che lo fa gratuitamente, per motivi affettivi simili a quelli che legano dei familiari, ci vogliono “prove rigorose”.

Così una recente sentenza della Cassazione, chiamata ad occuparsi del caso di una ragazza straniera. Questa chiedeva gli arretrati per l’ attività di lavoro domestico a una signora italiana presso la quale aveva vissuto per anni. 
 
In primo grado, il tribunale aveva dato ragione alla ragazza, ma la corte di appello aveva ribaltato la sentenza, escludendo la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinati. L’aiuto dato dalla ragazza non sarebbe stato retribuito perchè era giustificato da un “vincolo affettivo assimilabile a quello familiare”, anche se tra lei e la signora non c’era nessuna parentela.

A sostegno di questa tesi, il giudice di appello considerava che, durante il periodo per il quale chiedeva gli arretrati, la ragazza aveva frequentato corsi scolatici e praticato attività sportiva, e questo sarebbe stato “scarsamente compatibile con l’impegno lavorativo”. Inoltre, la signora le aveva cointestato un deposito titoli e l’aveva indicata come beneficiaria di una polizza assicurativa sulla vita.

La Cassazione ha però bocciato questo ragionamento. “Ogni attività oggettivamente configurabile come prestazione di lavoro subordinato, si presume effettuata a titolo oneroso” , si legge nella sentenza. Un’attività di questo tipo può essere considerata gratuita solo se si dimostra “con una prova rigorosa” che era dettata da un rapporto affettivo.

Ma le prove addotte in questo caso non sono state ritenute sufficienti. Le attività extralavorative “certamente non sono incompatibili con il vincolo di subordinazione” e lo stesso vale per la “promessa di attribuzioni patrimoniali non connesse ad obblighi contrattuali”. Di qui l’annullamento della sentenza del giudice di appello.

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