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Consiglio di stato, Sezione Sesta, Sentenza del 7 maggio legittima revoca di rinnovo pds

Consiglio di stato, Sezione Sesta, Sentenza del 7 maggio legittima revoca di rinnovo pds
Consiglio di stato, Sezione Sesta, Sentenza n. 2834 del 7 maggio legittima revoca di rinnovo pds
Nel caso di specie un cittadino extraUE ha presentato ricorso in appello contro il Ministero dell’Interno e la Questura di Forlì per la riforma della Sentenza con la quale il TAR dell’Emilia Romagna aveva confermato la revoca del permesso di soggiorno del ricorrente, adottata dal Questore.
Il lavoratore straniero era entrato in Italia con un permesso di soggiorno per nove mesi, indicati nel visto d’ingresso, e cioè per lavoro stagionale, nell’ambito dei flussi “2003”. Alla scadenza del permesso, anzicchè rientrare nel paese d’origine, il lavoratore ha, invece, richiesto direttamente il rinnovo di quest’ultimo, ottenendolo, sulla base di un errore della questura visto che sul permesso non compariva la consuetudinaria dicitura “non rinnovabile”.
La questura accortasi dell’errore ha provveduto alla revoca del permesso.
Nel caso all’esame del Collegio, è dunque, impugnata la revoca di un rinnovo di permesso di soggiorno di cui si è rilevata, dopo il rilascio, la non concedibilità, in quanto lo straniero appellate, era entrato in Italia con un visto per nove mesi e cioè per lavoro stagionale.
La svista omissiva o commissiva sul permesso di soggiorno presuppone pur sempre la sussistenza delle condizioni sostanziali previste dlla legge per il positivo esito del procedimento instaurato su istanza di parte.
Per ciò il Collegio respinge il ricorso in appello, confermando la sentenza impugnata.


 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
N.2834/2009
Reg.Dec.
N. 7496 Reg.Ric.
ANNO   2006
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la seguente
DECISIONE
sul ricorso in appello proposto da Lulashi Francesk rappresentato e difeso dagli avv.ti Lorella Mengozzi, Fabio Malpezzi e Guido Mascioli  ed elettivamente domiciliato in Roma Corso Vittorio Emanuele n. 18, presso il dott. Gian Marco Grez;
contro
Ministero dell’interno, in persona del Ministro pro-tempore, Questura di Forlì – Cesena, in persona del Questore pro-tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura generale dello Stato presso cui sono ope legis domiciliati in Roma via dei Portoghesi 12;
per l’annullamento
della sentenza del Tribunale amministrativo regionale dell’Emilia Romagna, Sez.I, n.1148 del 29 giugno 2006;
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione intimata;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Alla pubblica udienza del 3 marzo 2009 relatore il Consigliere Luciano Barra Caracciolo.
Uditi l’avv. Guerra per delega dell’avv. Malpezzi e l’avv. dello Stato Marchini; 
Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue:
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con la sentenza in epigrafe il Tar dell’Emilia Romagna ha respinto il ricorso proposto dal sig. Lulashi Francesk per l’annullamento della revoca del permesso di soggiorno (già rinnovato il 13 agosto 2004), adottata il 28 gennaio 2005 dal Questore di Forlì.
Il Tribunale riteneva che l’originaria autorizzazione al lavoro del ricorrente adottata dalla Direzione provinciale del lavoro di Viterbo, in data 30 settembre 2003, avesse testualmente ad oggetto l’assunzione del predetto con contratto di lavoro a carattere stagionale per mesi nove ed il correlato contratto individuale di lavoro subordinato stipulato dalle parti avesse conforme oggetto e durata. Lo stesso visto di ingresso, come rilevato dalla Questura di Viterbo con nota del 5 settembre 2005, recava l’annotazione consolare della stessa durata di 270 giorni con la dicitura “flussi 2003”, per cui l’ulteriore annotazione di “lavoro subordinato” era chiaramente e logicamente riferita ad un’attività lavorativa meramente stagionale. Pertanto, il ricorrente era necessariamente consapevole del carattere predeterminato del suo soggiorno, sulla base di un elementare canone di ordinaria diligenza, per cui nessun affidamento in buona fede era configurabile nel caso in esame. Inoltre, proprio l’art.24, comma 4, invocato in ricorso stabiliva il principio della non rinnovabilità del permesso di soggiorno per motivi di lavoro stagionale ed il criterio generale emeneutico “ignorantia legis non excusat” valeva per i cittadini e per gli stranieri extracomunitari, mentre il ricorso non conteneva la censura di mancata esplicitazione delle ragioni di interesse pubblico sottostanti l’adozione dell’impugnato provvedimento di autotutela, diversamente dalla prospettazione adottata in sede cautelare.
Appella l’originario ricorrente deducendo i seguenti motivi:
Inizialmente si riproducono i motivi esposti nel ricorso di primo grado nonché le repliche alle deduzioni dell’Avvocatura distrettuale.
Si sostiene che il ragionamento del Tar è errato perché è proprio dalla documentazione da esso citata che emerge la buona fede del ricorrente e la sussistenza del principio di affidamento che non si sarebbe potuto superare con i canoni di “ordinaria diligenza”. Dalla stessa nota del 5.9.2005 inviata dalla Questura di Viterbo a quella di Forlì risulta l’ammissione che la consuetudinaria dicitura “non rinnovabile” non fu inserita nella stampa del primo permesso di soggiorno per una “mera svista”, errore non imputabile al ricorrente. La successiva affermazione nella stessa nota che il permesso di soggiorno era stato concesso per lavoro stagionale “anche in relazione al visto di ingresso apposto alla pagina 11 del passaporto del sig. Lulashi, che risulta rilasciato per 270 giorni con dicitura flussi 2003”, ridonda a favore del ricorrente, perché dalla lettura del visto di ingresso sul passaporto del ricorrente risulta solamente che il visto fu rilasciato per “lavoro subordinato”, senza alcun riferimento al rilascio dello stesso per lavoro stagionale. Il ricorrente non poteva desumere nemmeno dal tenore del visto di ingresso che il permesso doveva essere rilasciato per lavoro stagionale. Tali circostanze, unite al fatto che nel permesso di soggiorno originariamente rilasciato dalla Questura per lavoro subordinato “anche stagionale”, e non meramente per lavoro stagionale, sono sintomatiche della buona fede del ricorrente e del suo incolpevole affidamento sulla rilasciabilità del permesso di soggiorno oggi revocato. In ogni caso, ammesso e non concesso che il ricorrente fosse consapevole del carattere temporaneo del permesso originario, non potrebbe certo andare a suo discapito l’eventuale errore dell’Amministrazione che ha concesso ciononostante il rinnovo del permesso di soggiorno. Pur tenendo conto della disposizione dell’art.5, comma 5, del D.lgs.n.286\98, è pur vero che la norma fa salvo il sopraggiungere di nuovi elementi che ne consentono il rilascio. Nel caso, l’eventuale errore dell’Amministrazione ha di fatto sanato la posizione del ricorrente, posto che egli, sulla base del rinnovo, ha poi ottenuto nuovo contratto lavorativo, per cui è attualmente in possesso di tutti i requisiti per fruire di un permesso di soggiorno per lavoro subordinato a tempo indeterminato. Il provvedimento di revoca, e la sentenza impugnata, sono privi di qualsivoglia riferimento all’interesse pubblico a giustificazione di un provvedimento così pregiudizievole per il destinatario.
Si è costituita l’Amministrazione deducendo l’infondatezza dell’appello.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Nel caso all’esame del Collegio, è impugnata la revoca di un rinnovo di permesso di soggiorno di cui si è rilevata, dopo il rilascio, la non concedibilità, in quanto lo straniero, attuale appellante, era entrato in Italia con un permesso di soggiorno per nove mesi, indicati nel visto di ingresso, e cioè per lavoro stagionale, nell’ambito dei flussi “2003” (dicitura anch’essa contenuta nello stesso visto).
La peculiarità sopra accennata consiste nel fatto che, tuttavia, nonostante tale indicazione di termine finale, l’originario permesso recava come titolo giustificativo la dizione “lavoro subordinato (anche stagionale”), mentre, per altro verso, il presupposto visto, pur delimitando la sua durata nei termini suindicati, recava, anche, la dicitura “lavoro subordinato”.
Si avevano dunque contrastanti indicazioni, da cui risultava che il permesso, pur temporalmente delimitato in conformità dell’autorizzazione al lavoro rilasciata per un’assunzione espressamente qualificata come “stagionale” dalla Direzione provinciale del lavoro di Viterbo, circostanza evidenziata dal giudice di prime cure, aveva, nella sua formale qualificazione attribuitagli dall’atto permissivo originario, un titolo giustificativo più ampio, cioè “lavoro subordinato”, di quello meramente “stagionale”.
Quest’ultimo titolo di ammissione nel territorio dello Stato, implica, ai sensi dell’art.24 comma 4, del D.lgs. n.286\98, che “il lavoratore stagionale, ove abbia rispettato le condizioni indicate nel permesso di soggiorno e sia rientrato nello Stato di provenienza alla scadenza del medesimo, ha diritto di precedenza per il rientro in Italia nell’anno successivo per ragioni di lavoro stagionale, rispetto ai cittadini del suo stesso Paese che non abbiano mai fatto regolare ingresso in Italia per motivi di lavoro. Può, inoltre, convertire il permesso di soggiorno per lavoro stagionale in permesso di soggiorno per lavoro subordinato a tempo determinato o indeterminato, qualora se ne verifichino le condizioni” (sottolineatura aggiunta).
Nel caso in esame, dunque, il lavoratore straniero non era rientrato nello Stato di provenienza alla scadenza del termine concesso nel visto e nel permesso di soggiorno originario, ma aveva invece chiesto direttamente il rinnovo di quest’ultimo, ottenendolo, sulla base della equivoca dizione in esso contenuta sul titolo giustificativo, sicchè la Questura, accortasi dell’errore, ha provveduto alla revoca.
In sede di appello si ripropone la rilevanza del principio di affidamento che avrebbe reso illegittima la revoca, affidamento escluso dal Tar sulla base del rilievo che le indicazioni complessive degli atti predetti fossero sufficienti a rendere il ricorrente consapevole della sostanziale natura temporanea della permanenza concessa e del regime legale conseguente, che gli imponeva comunque il ritorno in patria prima di adire per un nuovo permesso di soggiorno.
La tesi appellatoria non è condivisibile, perché la (parzialmente erronea e come tale equivoca) indicazione del titolo di ammissione al territorio nazionale contenuta nel permesso e la stessa generica indicazione del visto, non gli consentivano di ritenere irrilevante, la plurima e ineludibile indicazione del termine finale, che, in base all’ordinaria diligenza da usare nell’intendere i provvedimenti dell’autorità di uno Stato e la disciplina normativa con essi applicata, in conformità al principio di legalità\tipicità proprio degli Stati di diritto, gli doveva suggerire l’esigenza di un ritorno nel territorio dello Stato di appartenenza alla scadenza del termine indicato in tutti gli atti ad esso noti (come d’altra parte, risulta dall’art.4, comma 2, del D.lgs. n.286\98, per cui “contestualmente al rilascio del visto di ingresso,…l’autorità consolare italiana consegna allo straniero una comunicazione scritta in lingua a lui comprensibile…che illustri i diritti e i doveri dello straniero relativi all’ingresso ed al soggiorno in Italia” sottolineatura aggiunta).
Che poi la “svista” compiuta dalla p.a. nel primo permesso di soggiorno, nel non indicare la consuetudinaria dicitura “non rinnovabile” e nel definire il titolo di permanenza quale “lavoro subordinato (anche stagionale)”, abbia ingenerato un affidamento è circostanza che può spiegare l’istanza di rinnovo proposta senza rientrare nel territorio dello Stato di appartenenza, ma non imponeva alla competente Questura di derogare alla chiara normativa da applicare nel caso.
La svista, omissiva e commissiva, quindi, non poteva, in base al principio di conversione degli atti invalidi, -che presuppone pur sempre la sussistenza delle condizioni sostanziali previste dalla legge per il positivo esito del procedimento instaurato su istanza di parte-, far rifluire il caso del ricorrente nell’applicazione del regime di rinnovo per il diverso titolo di effettivo “lavoro subordinato”, operazione che la normativa non consente in alcun modo.
In sostanza, pur configurandosi un affidamento, questo non assurge a rilevanza tale da trasporre il destinatario nella situazione di lavoratore subordinato non stagionale che gli renderebbe applicabile il regime legale (rinnovabilità senza previo espatrio) la cui violazione renderebbe illegittima la revoca impugnata.
L’affidamento così suscitato, tutt’al più, rende irrilevante l’illiceità della permanenza del ricorrente, e, perciò, lo abilita, successivamente al rientro, a richiedere sia un nuovo permesso di soggiorno per motivi stagionali con priorità su altri posteriori richiedenti della stessa nazionalità, sia, ove sussista il relativo contratto di assunzione, a instare per la conversione del nuovo permesso come a titolo di “lavoro subordinato” a tempo indeterminato, e quindi a vedersi applicata la disciplina dell’art.24, comma 4, sopra riportata, senza che influisca alcun ostacolo in dipendenza dell’espulsione disposta con l’impugnata revoca.
L’affidamento opera ragionevolmente, in tal caso, in via scriminante di diversi e futuri aspetti sanzionatori in senso lato, cioè nel senso di precludere, in relazione a future istanze di permesso di soggiorno, che al ricorrente si possa opporre di non aver  “rispettato le condizioni indicate nel permesso di soggiorno” (art.24, comma 4, cit.), essendo l’inosservanza incolpevole, ovvero di doversi munire di “speciale autorizzazione del Ministro dell’interno” ai fini del rientro, come previsto dall’art.13, comma 13, del d.lg. n.286\98.
Diverso discorso, a fronte di un errore in cui sarebbe incorsa l’Amministrazione a seguito delle sue stesse incerte indicazioni provvedimentali precedenti, è quello per cui la revoca, quale atto, nel caso, di autotutela demolitoria, avrebbe dovuto essere giustificata dall’indicazione di uno specifico interesse pubblico che rendesse dell’attuale e concreta opportunità del ripristino della legalità.
L’esigenza di tale integrazione sotto il profilo motivazionale non è stata dedotta negli originari motivi di ricorso, la relativa inammissibilità della deduzione è stata evidenziata esplicitamente dal Tar, e lo stesso appello ha riproposto tale profilo di vizio, originariamente ritenuto inammissibile, senza peraltro neppure censurare l’inequivocabile statuizione sul punto del giudice di prime cure.
Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va respinto, con la compensazione delle spese del presente grado di giudizio, attesa la segnalata particolarità del caso.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge, con le precisazioni di cui in motivazione, il ricorso in appello indicato in epigrafe, confermando per l’effetto la sentenza impugnata.                        
Compensa le spese di giudizio.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Roma, il 3.3.2009 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale – Sez.VI -, riunito in Camera di Consiglio, con l’intervento dei Signori:
Giuseppe Barbagallo   Presidente
Luciano Barra Caracciolo  Consigliere est.
Roberto Garofoli   Consigliere
Claudio Contessa   Consigliere
Gabriella De Michele   Consigliere

Presidente
GIUSEPPE BARBAGALLO
Consigliere       Segretario
LUCIANO BARRA CARACCIOLO  ANDREA SABATINI

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

il. 07/05/2009
(Art. 55, L.27/4/1982, n.186)
Il Direttore della Sezione
Maria Rita Oliva

CONSIGLIO DI STATO
In Sede Giurisdizionale (Sezione Sesta)

Addì……………………………..copia conforme alla presente è stata trasmessa

al Ministero………………………………………………………………………………….

a norma dell’art. 87 del Regolamento di Procedura 17 agosto 1907 n.642

      Il Direttore della Segreteria

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