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Ricardo Perlingiero: “Ecco come alleno i campioni di domani”

Brasiliano, è assistente tecnico delle giovanili dell’As Roma. “I ragazzi devono divertirsi giocando. Le regole del campo servono per la vita”

 

Roma – 27 settembre 2011 – Il brasiliano Ricardo Perlingiero è arrivato in Italia tredici anni fa inseguendo la sua passione per il calcio. Dopo una carriera da giocatore è diventato allenatore e oggi è assistente tecnico per le giovanili dell’As Roma.

Oltre che i lupacchiotti, hanno ascoltato i suoi consigli più di 2000 bambini da diversi paesi del mondo, che hanno già partecipato alle “cliniche del calcio”, i suoi stage dedicati all’arte del  pallone. Con una regola d’oro:  “I ragazzi devono soprattutto imparare a divertirsi giocando”.

Cosa serve per essere un buon allenatore e quali sono le maggiori sfide della professione?
Prima di tutto è necessario volontà, esperienza e molto studio. Un buon professionista deve frequentare corsi, partecipare a stage nei club, imparare come si organizza un allenamento… Infine, l’esperienza del giorno per giorno è fondamentale. La sfida principale è saper gestire diverse personalità all’interno di un gruppo, ricordando sempre che l’obiettivo è comune. Bisogna bilanciare i rapporti, insomma usare il bastone e la carota.

I brasiliani hanno veramente una marcia in più nel calcio?
In generale sì, ma la mentalità del calcio europeo è diversa. Qui esiste una maggior preparazione fisica degli atleti, maggior attenzione al gioco tattico, al posizionamento in campo e all’osservazione dell’avversario. I brasiliani, invece, fanno molto affidamento sulla creatività, sulla parte tecnica e sulla capacità di improvvisare e di eccellere in situazioni difficili.

Che cosa i brasiliani hanno da imparare dagli italiani e viceversa?
I brasiliani potrebbero migliorare l’organizzazione fuori dal campo, abituarsi ad analizzare di più i punti di forza e di debolezza dell’avversario per poter creare giochi capaci di annullare l’organizzazione dell’altra squadra. Non c’è da stupirsi che l’Italia ha vinto quattro campionati del mondo. Già gli italiani potrebbero prestare più attenzione alla tecnica, imparare un po’ dello stile brasiliano, famoso nel mondo per sua abilità.

Malelingue dicono che l’alta professionalizzazione dei ragazzi che giocano a calcio in Brasile sta uccidendo i il talento naturale? È vero?
Uno dei problemi principali è la pressione che molti genitori e procuratori mettono nei bambini affinché diventino giocatori professionisti. Ciò tende a creare un’ansia di prestazioni, una ricerca esclusiva del ritorno economico. Molti finiscono per smettere di giocare, altri sono ingannati da false promesse di attuare in grandi squadre. Tutto dipende dall’ambiente in cui il ragazzo viene addestrato.

Si parla molto di professionalità. Il calcio è ancora uno sport?
Il calcio è una passione nazionale in molti paesi, ma è stato spesso utilizzato per ottenere un vantaggio per l’immagine personale e politica. Il calcio dovrebbe essere insegnato come uno sport che oltre ai benefici per la salute, per sviluppo muscolare e motorio,  favorisca la convivialità, l’educazione. È necessario istruire i bambini a giocare senza pensare soltanto al risultato. I ragazzi devono, soprattutto, divertirsi giocando. Le regole che imparano sul campo possono servire per tutta la vita.

Ultimamente, alcuni allenatori, come Mourinho, fanno più notizie che le stesse partite. Questo è positivo per la vostra professione?
Mourinho è un buon comunicatore, fa molta provocazione e crea tanta polemica. Ma nonostante i molti meriti e diversi titoli conquistati, non credo che lui sia un buon esempio per i suoi giocatori, tantomeno per i bambini che stanno cominciando a giocare a calcio. Un esempio di buon professionista è Alex Ferguson del Manchester, con la sua lunga carriera in una stessa squadra.

Erika Piacentini Zidko
Agoranoticias.net

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