"Per noi la bella giornata è quando piove, in Italia invece la bella giornata è con il sole pieno" Ejaz Ahmad
In “Nuove lettere persiane” (edizioni Ediesse, a cura di Francesca Spinelli), quattordici giornalisti di origine straniera raccontano a parenti o amici le loro impressioni sull’Italia. Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, la lettera scritta da Ejaz Ahmad, direttore del mensile per i pakistani in Italia Azad.
LETTERA A MIO PADRE
Asslam Alaykum Abba Gi. Oggi è lunedì 3 maggio 2010, ti scrivo e guardo fuori dalla finestra. A Roma piove. Si potrebbe dire che sia una bella giornata. In Pakistan per noi sarebbe una risolutrice giornata di pioggia, puntuale a smorzare la calura che fin da marzo avvolge tutto il Paese. Un acquazzone propizio a compattare tutta quella polvere, che quotidianamente fa apparire le nostre città come fossero dietro una tendina di chiffon. Certo, niente a che vedere con il mese dei monsoni che in oriente sconquassano, affogano e affondano tutto quello che trovano sulla loro strada. Si, per noi la bella giornata è quando piove, in Italia invece la bella giornata è con il sole pieno.
Tra poco gli italiani si riverseranno a frotte sulle loro coste, muniti di tutto punto per conquistare l’abbronzatura, motivati come guerrieri pronti ad espugnare la città assediata. Il vincitore: colui che avrà raggiunto il punto di cottura migliore. Questo mi fa ricordare una storiella che ho letto, non so più dove, sugli indiani d’America. Al tempo dei conquistadores girava voce, che in un periodo lontano, quando Dio aveva creato gli umani, i bianchi gli erano venuti cotti poco, gli africani cotti troppo, mentre, gli amerindi erano venuti cotti bene.
E pensare che da noi più sei pallido più sei “giusto”. Il mese scorso ho conosciuto il figlio di una coppia di connazionali, ha dieci anni, appena arrivato in Italia si è fatto venire una irritazione cutanea perché tutti i giorni si scorticava il corpo con il Glassex nel tentativo vano di schiarirsi la pelle! Il bambino aveva notato, che i suoi nuovi compagni di scuola erano tutti di carnagione molto chiara. Una frustrazione e un peso troppo grande per un bimbo smarrito che voleva semplicemente assomigliare agli altri. E solo ora mi rendo conto come in Pakistan la situazione non sia poi così diversa. Più sali di casta più la pelle è chiara!
Una cosa, però, non riesco proprio a capire: quando questa questione della pelle sia diventata così rilevante tanto da essere giudizio e pregiudizio, sinonimo di ricco e di povero. E anche in Italia è così legittimata da divenire lasciapassare per tante aberrazioni. Tanto che per noi immigrati facilmente riconoscibili dalla quantità di melanina sfacciatamente esposta non sempre abbiamo vita facile.
Però questo mi fa riflettere e dico: peccato, che gli italiani non abbiano saputo coltivare, ma soprattutto proteggere la memoria di quando erano loro ad essere costretti a emigrare. Certo ogni tanto qualcuno ne parla, si fanno dibattiti e si scrivono libri, ma ai più l’argomento non interessa proprio…… sai il problema del know how. E quindi, ogni volta che qualcuno in qualsiasi parte del mondo andrà, dovrà sempre ripresentarsi come se fosse il primo immigrato. Dovrà spiegare e convincere del perché ha dovuto abbandonare la sua terra matrigna. Mentre guerre, carestie, disoccupazione, voglia di libertà, paesi in work in progress che non decollano mai, sono le sole bolle d’accompagno del tanto materiale umano che circola e si mescola sul territorio.
Non è demagogia abba gi. Emigrare è doloroso. Direi un lento processo di lacerazione. Ora dopo tanti anni in Italia ho imparato anche a sognare in italiano ma ti assicuro che non passa giorno che io non senta il profumo dei campi coltivati a basmati, delle spezie pungenti che impregnano i vestiti. Figurati che in Italia ci sono più cause giudiziarie fra condomini infastiditi dalle “puzze” rilasciate dalle cucine etniche, che da noi per problemi di terre confinanti. Tutto dire. E’ chiaro quanto sia importante il cibo, quello che, ti porti dietro dall’infanzia, che ti fa sentire di esserci anche quando sei stremato dalla fatica, quando sei solo oppure quando vuoi che gli altri ti scoprano partendo proprio da una samosa.
Mi ricordo i rumorosi matrimoni pakistani dove anche nel più discreto c’erano almeno trecento invitati. E bisognava sfamarli tutti! La riuscita dell’evento veniva garantita dalla quantità di cibo sfornato. Sembravano tutti usciti da campi di lavoro forzato e mangiare a quattro ganasce era la loro giusta ricompensa. Ogni volta che ritorno in Pakistan mi accorgo del tempo che è passato dai centimetri di giro vita aumentati a dismisura intorno ai corpi di amici e parenti. Da noi grasso è bello. E’ il corpo che parla, racconta del suo benessere e quindi della ricchezza, dello stato sociale. Ogni chilo in più è un successo raggiunto. Nessuno sembra preoccuparsi troppo del colesterolo e dei problemi cardiaci conseguenti. Morire d’infarto è comunque da ricchi, sempre meglio che morire di fame.
In Italia ogni duecento metri ci sono supermercati, scintillanti di luci e di offerte vantaggiose, concorrenza spietata tra un marchio e l’altro. Ma qua tutti ti dicono che il grasso non è glamour. Medici, psicologi, esperti in genere, quotidianamente ti mettono in guardia dall’insidia dell’adipe. La pubblicità, poi, quella patinata, sfodera solo modelle magrissime, spigolose con facce perennemente imbronciate, oppure maschi dai corpi costruiti in palestra che portano i segni del sudore sceso. Certo il tempo per mangiare non riescono sicuramente a trovarlo.
La cosa che mi inquieta è che spesso questi modelli di carta diventano, per alcuni, modelli di vita. Soprattutto, tra i giovani c’è un rincorrere i tipi più fotografati del momento. A volte sono calciatori, osannati come da noi i campioni di cricket, o soubrette di varietà televisivi. Ma il risultato non è sempre così edificante, brutte copie spesso ridicole si aggirano convinte e soddisfatte per la somiglianza raggiunta. Sai in Italia i ragazzi sono molto più liberi, fin da subito puntano i piedi e decidono.
Spesso si sperimentano nuovi modelli di famiglia: nucleare, allargata, single con prole. Per non parlare dei divorzi tanti quanto i matrimoni. E pensare che nelle nostre famiglie “tradizionali” niente di tutto questo potrebbe accadere. In Pakistan si nasce e si muore nella famiglia e per la famiglia. Mai individui ma sempre gruppo. La strada è tracciata da subito, prima il tuo nome e subito dopo quello del padre, poi la casta. Come avere un primitivo microchip, con due parole possiamo ricostruire lignaggio, provenienza e status sociale di chi abbiamo davanti.
Quello che saremo è già stampato, così come con chi ci sposeremo. Gay non esiste. Femmina libera, che lavora meno che mai. Agli uomini appartiene tutto ciò che è pubblico, alle donne il privato, la casa, la cura. Certo chi si ribella è fuori. Il divorzio, poi, una parola impronunciabile. Separarsi, -mai!- il gruppo ne soffrirebbe tutto. E così si va avanti come in una spirale senza fine. Ma se non cambia la famiglia, come fa a cambiare la società? Suggerirei né monadi né gruppo, ma persone ben strutturate che sappiano vivere con gli altri e per gli altri.
Che ne dici abba gi sarebbe ora di cambiare? Lo so, che pensi di avere un figlio un po’ bislacco e forse è anche per questo che sono qua. L’uomo non è un’isola e prima o poi approda in qualche porto, avevo voglia di sperimentare e di rimettermi in gioco in un Paese che non mi appartiene, dove tutto è diverso da noi. Dove la vita è frenetica, si rispettano gli appuntamenti, i lavoratori scioperano per i loro diritti e le donne lottano per la loro indipendenza.
Però, le ingiustizie, quelle no, sono diffuse anche qua. In Pakistan gli autobus partono quando sono pieni, i tempi sono dilatati come una macchia d’olio inarrestabile. Ma è anche il Paese dove i vecchi sono accuditi e rispettati. A loro appartiene la nostra memoria. E anche la morte non fa poi così paura, non è solitudine e tabù.
In Italia, il fine vita è un argomento che si sorvola pensando, così, di esorcizzarlo. Invece i pakistani abituati a vivere in famiglie numerose e con una sanità, che lascia grande margine al fato o meglio al volere di Allah convivono con il sonno eterno fin da bambini. Poi il cordoglio dell’intero villaggio o di tutto il quartiere, stemperano il dolore e ti accompagna con rispetto, nel lungo viaggio dell’elaborazione del lutto. Mai soli sempre gruppo. A volte aiuta.
Guardo fuori dalla mia finestra. Ora ha smesso di piovere. Domani ti scriverò ancora. Sempre nel mio cuore tuo Ejaz.
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Ejaz Ahmad è originario di Gujranwala ( Pakistan), dove da Laureato in Comunicazione di Massa ha lavorato a lungo come giornalista. Ha 48 anni, sposato con una cittadina italiana e dal 1989 vive a Roma. In Italia è mediatore culturale e giornalista. Il suo lavoro quotidiano lo porta continuamente a confrontarsi per divulgare la cultura pakistana in Italia.
Impegnato quotidianamente per i diritti delle e degli immigrati è parte attiva nel dialogo con le istituzioni sull’Islam in Italia. Laico, forte sostenitore di un Islam moderato è uno dei componenti della Consulta islamica presso il Ministero dell’Interno. Lavora da sempre all’ambizioso progetto di una società multietnica e multiculturale nel rispetto delle "diversità" come patrimonio comune. Coinvolto da sempre nello sviluppo del dialogo interreligioso.
Ahmad è il caporedattore di Azad, il giornale in lingua pakistana del gruppo editoriale Stranieri In Italia. Ha pubblicato nel 1998 un libro sul Pakistan edito dalla Pendragon di Bologna e ha curato un capitolo del libro “Lampedusa“ edito nel 2009 dall’Istituto San Gallicano. Lettore e docente di lingua Urdu presso il Dipartimento di Studi Orientale “La Sapienza” di Roma, è presidente dell’ associazione ONLUS “Nuove Diversità”.