dell’autrice di origini polacche Barbara Serdakowski
– Ma te in che lingua pensi?
– Nella lingua del momento.
– Sta a dire?
– Mettiamola così, non credo che si pensi in lingue. Il pensiero è indipendente dalla forma verbale. Per esempio se faccio un sogno e lo racconto ad una persona che parla francese mi viene spontaneo parlarne in francese come si avessi sognato in francese, invece se sto vicino a qualcuno italiano…
– Interessante…
Vedo la noia stampata sul viso confuso. Chissà perché si fanno certe domande? Le persone vogliono le loro risposte. Hanno già delle risposte pronte alle quale bisogna corrispondere.
– Come stai?
Si dice:
– Bene e tu? al limite – si tira avanti – oppure – Ma insomma, ci dobbiamo accontentare…
Non si va a raccontare i problemi della propria vita, sarebbe inappropriato. Ed è proprio questo il termine che sembra applicarsi a me il più delle volte. Non sembro intuire le risposte giuste.
– Si chiamano Kopytka.
– Son’ gnocchi!
– Sono Kopytka.
– Sembrano gnocchi…
– Sì, concedo, sempre a base di patata e farina sono ma non si chiamano gnocchi.
– Come dici che si chiamano?
– Kopytka.
– Koptaka, Koptika, KoKo, ma lascia perdere, questi sono proprio come i nostri gnocchi e come li fai?
Le dico la ricetta.
– Ma sei sicura che si fanno proprio così? Da noi si mette questo alla fine.
– Perciò non si chiamano Gnocchi ma Kopytka.
– Gnocchi, son’ gnocchi vai, a parte che da noi non si tagliano così. Si fa con le dita. Se tu adesso li metti così, ti vengono proprio degli gnocchi fatti per bene.
– Buonissimi ‘sti gnocchi polacchi. – ottenni la mia concessione.
– Grazie. – “kopytka, si chiamano kopytka” sussurrai fra me e me non mi sente ma non sono neanche tanto sicuro che lo dico a lei, forse me lo sto ripetendo a me stessa per non dimenticare.
Ma questa lotta non succede solo con la suocera. Basta andare al bar.
– Avesse!
– Scusa?
– Hai detto “avrebbe” dovevi dire “avesse”.
– Ha sì! Grazie.
Con fatica provo a riprendere il discorso, bevo un sorso di spremuta, mi guardo intorno, si è fatto tardi. È tempo di tornare a casa. Si stava parlando di qualcosa, non ricordo più tanto bene. Il mio interlocutore nemmeno. Finisce il caffè alzando la tazzina fino in fondo ed allunga la mano in tasca. Non ho finito la spremuta, mi confondo, cerco di afferrare la borsa, lui fa prima di me. Paga per due io ringrazio. Il professore paga sempre la consumazione all’allievo. È vero che avevo detto “avrebbe” aveva proprio ragione. Che figura. Meglio scrivere, per lo meno chi ti legge ti corregge dopo, non ti interrompe.
– E cosa fai di bello nella vita?
– Sono scrittrice. Articolo a mala pena. Dopo l’episodio dell’avesse suona male.
– E cosa scrivi? Poesie d’amore? La voce… e bene ve la potete immaginare.
– No, scrivo ricette per conto dei medici, sai quelle scritte criptiche, me le fanno fare a me.
– Ma perché sei venuta in Italia, non stavi bene in Canada, che bello il Canada.
– Troppo spazio.
Vivo sola con le mie espressioni. Onomasiologa, traduco detti appropriati, a secondo delle circostanze, facendo rabbrividire chi mi sente. Sbaglio le versioni idiomatiche, dialettali, modali giovanili, tra donne, tra uomini, mi mancano le gesta, le contrazioni facciali, il movimento delle sopracciglia. Non aderisco agli accorgimenti dell’abbigliamento stagionale, non rispetto le regole dell’età per l’acconciatura, il colore delle calze, il taglio della scarpa. Uso stigmi di altri posti, a caso, rivisitati. Ho perso i punti di riferimento: tra qualche anno mi daranno dell’eccentrica.
– Vous êtes française?
– Non – li rassicuro- polonaise…
– Mais vous le parlez si bien?
Sono sollevati, non c’entro. Da parte loro non era curiosità, in Francia il processo del multiculturalismo è a livelli più avanzati. No, era la sorpresa. Se non è più l’involucro umano a definirmi con i miei tratti nordici, è certamente quello modale. A parte la pronuncia e le parole scivolate via dalla bocca con facilità, il resto del linguaggio non aveva : les finesses du rôle.
A un francese non dico che sono Canadese. Sono simpatetici con la Polonia, forse per Georges Sand, Napoleone, Kieslowski, ma non con i loro « cugini » nord americani. Vengo dal Québec. Li confondo, devo spiegare, praticamente raccontare la mia vita. Quel accento troppo « français de France », lo devo proprio giustificare! Il Marocco! La luce si accende – madre patria e super coloni: superiorità².
– Où est la salle de bain? Chiedo alla guardia.
Mi guarda e sorride.
– Désolé madame, ici au musée Dorsey il n’y a pas de salle de bain, du moins pas pour la clientèle.
Ride. Io non capisco, non mi aspettavo una frase così lunga, e tutta questa ilarità.
– Mais peut-être que les « toilettes » peuvent résoudre votre problème?
Mi prende a contropiede, lo guardo perplessa. La guardia di un museo non dovrebbe essere più impersonale? In Québec la parola « toilette » tende ad essere un po’ volgare « salle de bain » sembrava suonare meglio. In Francia « salle de bain » include vasca, accappatoio, ciabattine, ecc. Anche una guardia in un museo si permette di rinfacciarmi la mia non idiomaticità. Sono persa. Sono rossa. Lui mi indica un cartello che non avevo visto. Mi trascino via, umiliata e confusa. Pensavo venire in Francia e confondermi. Mi sono tradita : adesso sanno che quel bel accento è fasullo.
Ma questo era solo un viaggio, di ritorno a casa ecco cosa mi aspettava:
Cercavamo una segretaria, abbiamo messo l’annuncio.
– Ma questo lavoro impegna tutta la giornata?
– Resta ancora da vedere, forse soltanto mezza, per ora.
– Di mattina o di pomeriggio?
– Principalmente di mattina.
– Ma quanto pagate?
– Signora, dipende un po’ dall’esperienza, perché non viene per un colloquio?
– Guardi che se non mi dice la paga io non sto nemmeno a venire, non ho tempo da perdere.
– Guardi che io credo che questo lavoro non faccia per lei.
– E lei come si permette di dire quale lavoro fa per me?
– Perché sono quella che sarebbe incaricata di impiegarla se lei andasse bene.
– Non ha neanche visto il mio curriculum. Non sa con chi sta parlando!
– Non serve, Le assicuro che lei non andrà bene.
– Ma come si permette!
– Mi permetto perché sono la direttrice della ditta!
– Non so come ha fatto a diventarlo se non ha neanche imparato a parlare bene la nostra lingua, si sente che lei è straniera, sa? Si sarà scopato il capo!
La solitudine linguistica. Una realtà sconosciuta. Quando ho cambiato lingua ho perso il mio umorismo e chi sa quante altre rifinitezze. Sarà per quello che non riesco a ridere di quel che è successo al telefono? Raccontandolo ad altri hanno riso tutti: Pazza la tipa! A me invece è rimasta come una lisca di pesce in gola. E poi non riesco nemmeno a fare ridere bene in italiano. Un sorrisetto lo strappo ma finisce tutto qui. Manco di parole, quelle verbali, le uniche che durante una serata contano davvero. Ero molto più scherzosa in francese e anche in inglese. Ma non più. Col tempo e la permanenza qui, in terra estera, anche queste abilità mi si sono smussate. E poi non rido nemmeno più quando raccontano barzellette: non mi vanno giù gli scherzi sui carabinieri, gli svizzeri, i belgi, né quelli sulle donne, le bionde, i balbuzienti, i preti, sui neri, sugli ebrei, i terroni, le puttane, mi disturbano finanche le storielle tra cani e gatti. Mi vanno bene solo mostri, fantasmi e giochi di parole. Sto diventando asociale e musona, prometto male.
Barbara Serdakowski
Poeta e scrittrice, nata in Polonia nel 1964. È cittadina canadese, è cresciuta in Marocco, ma da anni vive in Italia, attualmente a Firenze.
È presente in numerose antologie ed è vincitrice di molti premi letterari.
Sulla sua produzione letteraria hanno scritto, tra gli altri: Manlio Cortellazzo «Il racconto [Visita al museo] si segnala per la leggerezza del tratto, la solida costruzione stilistica e il "realismo surreale" squisitamente mittleuropeo, memore delle lezioni di Kafka e Cechov. La sorpresa finale, che ricorda da vicino "Nella mia fine è il mio principio" di Agatha Christie, basta da sola a caratterizzare la prova come pienamente riuscita: come il giallo della Christie, inoltre, costringe il lettore a rileggere il racconto per individuare trama e ordito dell’inganno inespresso, alla ricerca delle frasi e degli indizi che avrebbero dovuto fargli capire come la realtà fosse altra da ciò che sembrava. Altre ascendenze potrebbero riscontrarsi nel teatro di Pirandello, nel cinema di Kurosawa ("Rashomon"), nel film "Oltre il giardino" con Peter Sellers: si tratta del resto di un’opera dal pregio filmico e scenico, dove soggetto e sceneggiatura concorrono alla definizione di un apologo esistenziale.»; Anna Mici «L’autrice parla parecchie lingue ma ci complimentiamo per l’italiano, fluente, spontaneo, ricco di intensità, anche difficile nell’espressione, che si presenta sempre scorrevole e puntuale.”