Roma, 7 dicembre 2018 – In questi giorni è stata sollevata la polemica sul regolamento comunale di Codroipo riguardo la presenza/assenza di bambolotti dalla pelle scura e giochi e strumenti musicali che facciano riferimento ad altre culture negli asili. Non voglio entrare in merito di quanto successo a Codroipo, ma voglio parlare di quello che è successo lo scorso anno scolastico a me e mio figlio, in un asilo statale della provincia di Roma dove comunque un bambolotto dalla pelle scura c’era.
Ma andiamo con ordine. Ho vissuto in un paese africano (del quale non voglio fare il nome) per molti anni e lì ho adottato mio figlio come single all’inizio del 2017. A novembre dello stesso anno ci trasferiamo in Italia, in un paese della provincia di Roma, ed iscrivo mio figlio di 4 anni all’asilo statale. All’inizio sembra che con le maestre vada tutto bene, racconto loro la storia di mio figlio e sembrano collaborative. Mio figlio è un po’ spaesato perché è la prima volta che si trova in un contesto di sole persone bianche, ma io confido che le insegnanti lo aiuteranno.
A fine novembre mio figlio mi racconta che una bambina della sua classe gli ha detto che è brutto perché è nero. Io mi dispiaccio, ma non mi preoccupo. I bambini a questa età non hanno filtri e nel nostro paese sono abituati a vedere solo bambini bianchi. Decido di riferirlo all’insegnante. E qui arriva la mia sorpresa: la maestra mi dice che non ci può fare nulla. Deve sentirsi attaccata perché aggiunge anche di avere tanti bambini in classe e di non potersi accorgere di tutto. Cerco di dirle che capisco e per questo l’ho voluta informare. Lei chiude dicendo che per queste cose ci sono i colloqui a fine gennaio. Io rimango basita e furente. Ne parlo con la preside e mi assicura che ne parlerà con le insegnanti.
I giorni passano e mio figlio inizia a mostrarsi sempre più insicuro, se andiamo al parco non vuole giocare con bambini che non conosce perché ha paura che gli dicano che è brutto, quando è ora di dormire, anche se dorme nel lettone con me, si nasconde sotto le coperte. Passa Natale, il primo Natale della sua vita con i regali, e riesco anche a rispondere a perché prima Babbo Natale non gli avesse mai portato un regalo senza far cadere su di lui le ingiustizie del mondo.
Ma quando torna a scuola a gennaio e la stessa bambina fa lo stesso commento ed io lo vedo soffrire per questo, non posso fare altro che dirgli che ci sono persone che dicono cose sbagliate, perché nessuno è brutto a causa del colore della sua pelle, siamo tutti belli. Parlo di nuovo con l’insegnate e ricevo la stessa risposta di prima. Le chiedo se conosce i genitori della bambina, se sia il caso di parlarci, e lei si trincera nell’omertà “Non so chi siano, non li conosco”. Dire che sono infuriata è dire poco, chiamo l’UNAR, l’ufficio per denunciare casi di razzismo presso la presidenza del consiglio dei ministri. Ottengo un incontro congiunto con la preside e la coordinatrice pedagogica.
E così mi trovo ad una specie di tribunale o esame con me seduta su una sedia dell’asilo e la preside, la coordinatrice didattica e una delle insegnanti in riga dall’altra parte dei banchi di scuola. All’inizio cercano di minimizzare, dicono che va tutto bene, poi però mi dicono che hanno parlato con il padre della bambina. Inizio a fare domande. Se va tutto bene perché avete parlato con il padre della bambina? Cosa state facendo per mio figlio? Avete giochi che non rappresentino solo bambini bianchi? Avete libri i cui protagonisti non siano bianchi? Raccontate storie in cui i protagonisti non siano bianchi? Ed è li che, dal fondo della cesta dei giochi, la maestra tira fuori un bambolotto dalla pelle scura. Poi la preside inizia a parlare e scopro presto la sua strategia: darmi la colpa. Se l’insegnate mi ha risposto in quel modo è colpa mia perché io ho un modo di fare incalzante. Aggiunge che la situazione è particolare perché a mio figlio manca la figura paterna.
Quando le parlo del malessere di mio figlio mi dice che non posso esserne sicura perché lo conosco da troppo poco tempo e conclude che mio figlio si deve abituare a situazioni del genere. La coordinatrice pedagogica poi ci mette il carico: secondo lei questo non è un problema vero, il problema vero lo hanno nella sua classe dove è appena arrivato un bambino russo che non parla italiano. Io sono così rivoltata da quello che mi tocca sentire che scelgo di non rispondere, le lascio parlare mentre fisso il soffitto dietro di loro.
Pochi giorni dopo mio figlio si mette a piangere perché non vuole entrare a scuola, cosa mai successa. Lo porto a casa. Ci sono i colloqui, ma l’insegnante continua a dirmi che va tutto bene. Mi mostra anche un lavoro che hanno fatto sul corpo umano che rappresenta una grande figura umana color rosa porcellino. Ottengo un altro incontro con la preside, stavolta solo io e lei. E approfitto per dirle tutto quello che non le ho detto in precedenza: non si può permettere di dirmi che non conosco abbastanza mio figlio, perché sono la madre e sono la persona che lo conosce meglio sulla faccia della terra. Non si può permettere di dire che il mio essere single abbia a che fare con la situazione, perché in primo luogo si sta parlando di qualcosa detto da un’altra bambina e soprattutto di come questo sia stato gestito dalla preside, in secondo luogo la figura paterna non è garanzia di nulla, ed in terzo esistono vari tipi di famiglie monoparentali e omogenitoriali.
Le dico anche che l’intervento della coordinatrice pedagogica è stato fuori luogo, perché per quanto la barriera linguistica sia ardua i bambini la superano in fretta. Invece non è che se mio figlio si impegna diventerà bianco, sarà sempre nero. Il colore della pelle non si cambia. Sono problemi diversi e la coordinatrice pedagogica non dovrebbe mettersi a fare la gara a chi ha il problema più grosso in classe. Le racconto anche del lavoro della classe sul corpo umano. “Un’occasione persa per lavorare sull’inclusione” le dico. Perché si possono rappresentare i vari colori di pelle.
Si tratta di una scuola intitolata ad un grande pedagogista italiano, il cui POF è pieno di belle parole sull’inclusività, che fa suo il motto “I care” antifascista e poi all’atto pratico afferma che un bambino oggetto di razzismo a 4 anni si debba abituare al razzismo, che nega il problema, che non fa nulla per risolverlo. Si tratta di una scuola con un bambolotto nero in classe. Ma il bambolotto, da solo, non basta.
Mio figlio ha smesso di frequentare quella scuola. Ora per fortuna ha delle maestre meravigliose. Ha ancora compagni che gli dicono cose poco piacevoli, come chiedergli perché la mattina si mette la cacca in faccia, ma ha delle maestre che lo aiutano ad affrontare e superare certe situazioni.
Francesca De Maria