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Usa. “L’immigrazione frena? Accelerare l’integrazione”

“Solo così l’America rimarrà la nazione più ricca e potente del mondo”. Sul New York Times la “nuova sfida dell’immigrazione”

 

Roma – 13 gennaio 2012 – Frenano gli arrivi di immigrati, ma la politica non sembra essersene accorta. Continua a gridare contro i clandestini perdendo di vista la nuova vera sfida: l’integrazione di milioni di persone che vivono ormai da anni negli States, “una vasta risorsa non sfruttata”.

È l’analisi fatta qualche giorno fa sul New York Times da Dowll Myers, professore alla University of Southern California e autore del saggio “Immigrants and Boomers”. Con una serie di considerazione che potrebbero fare scuola anche in Italia.

In un editoriale dal titolo “The next immigration challenge”, il professore ricorda che il tasso di crescita del numero di immigrati negli Usa si è dimezzato rispetto agli anni novanta. E non sono previste inversioni di rotta se si considera che anche i tassi di natalità in Messico, paese da cui ne sono arrivati di più, sono scesi drasticamente e che quindi i giovani troveranno molto più facilmente lavoro in patria.

Che succede invece agli immigrati che sono da anni negli States? “Stanno facendo passi da giganti nell’assimilazione” assicura Myers, numeri alla mano. Se appena un terzo degli adulti ha un diploma, nel 2030 l’80 % dei loro figli arrivati negli anni novanta da bambini avranno completato la high school e il 18% avrà un bachelor’s degree.

Nel 2000,  il 20% degli immigrati arrivati negli anni 90  aveva comprato una casa e si stima che nel 2030 la percentuale arriverà al 70%. Questa domanda farà salire i prezzi e incrocerà le offerte dei babyboomers americani che vendono le loro case inutilmente grandi quando i figli crescono e se ne vanno.

Poi c’è, naturalmente, la demografia. Quegli stessi babyboomers hanno fatto pochi figli, invecchiano e vanno in pensione, e quindi la forza lavoro nativa americana scende. Anche sotto questo aspetto, gli immigrati e i loro figli diventano cruciali per l’economia.

Nonostante questo, sottolinea, Myers, la politica non sembra incoraggiare questo processo di assimilazione. Quest’anno il Department of Homland Security (che può essere paragonato al nostro ministero dell’Interno), spenderà appena 18 milioni di dollari, molto meno dello 0,1% del suo budget, per l’integrazione, mentre gli Stati con più immigrati stanno tagliando i fondi delle scuole pubbliche, quelle dove studiano le seconde generazioni.

Come invertire la rotta? Intanto, suggerisce il professore, reindirizzando gradualmente i miliardi spesi finora per il controllo delle frontiere verso il settore dell’istruzione e aumentando così le borse di studio per i meno abbienti. Ma anche finanziando le iniziative del no-profit dedicate all’integrazione.

Nelle politiche di immigrazione dovrebbero inoltre giocare un ruolo sempre più forte i ministeri del Lavoro, del Commercio e dell’Istruzione,  per “coltivare” i lavoratori dei quali l’America ha bisogno. “Questo significa aiutare gli immigrati e i loro figli a diplomarsi e a laurearsi,  non lasciare nessuno in lista d’attesa per un corso di inglese, contribuire a migliorare le competenze dei lavoratori stranieri per competere meglio in un’economia sempre più basata sull’informazione e sulla conoscenza”.

Grazie agli immigrati, conclude Myers, “l’America può rimanere per decenni la nazione più ricca e potente del mondo. Plasmare una politica che punti a sviluppare i talenti dei nostri immigrati e dei loro figli è il modo più sicuro per centrare questo obiettivo”.

Leggi anche:
Dowell Myers: The Next Immigration Challenge (The New York Times)

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