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Come un cioccolatino fondente

Un racconto di Angela Roig Pinto

5.45 del mattino…Lucero era sul balcone, immobile, con lo sguardo fisso e la respirazione lievemente accellerata. Un grosso strato di neve aveva coperto tutto quanto i suoi occhi neri riuscivano a vedere. La città era bianca, tutta bianca, così affascinante come nelle cartoline che qualche volta lei aveva ammirato quando era ancora nel suo paese, quasi sempre caldo.

Mai aveva visto nevicare fino a quel 3 gennaio 2008 a Milano, e non trovava il momento per chiamare i suoi e raccontare quell’avvenimento che forse loro mai avrebbero avuto l’opportunità di apprezzare. La ragazza era proprio emozionata. Aveva attraversato l’Atlantico e –quel piccolo momento di magia della natura-  rendeva felice la sua nuova vita.

Il suono della sveglia tagliò i suoi pensieri, avvolti in quella festa bianca e mattutina, e le ricordò che stava facendo tardi per andare al lavoro. Nell’appartamento affittato erano in tanti e riuscire a dormire bene era una fortuna. Per questo, si svegliava quasi sempre prima. Le bastavano 5 o 6 ore di sonno perchè nel suo paese si lavora tanto, per tentare di avere uno stipendio più o meno dignitoso, che quello di dormire qualche ora in più è un lusso.

Era ancora scuro e come tutte le mattine, alle 6.30 circa, Lucero era già sulla strada diretta al lavoro. Sui mezzi si sarebbe incontrata con gli stranieri che, come lei, al solito sono i primi a popolare le strade, sempre di corsa per potere sfruttare al massimo il tempo lavorativo in Italia, prima di tornare alla loro terra.

Almeno, quella mattina, la nevicata faceva dimenticare a Lucero il freddo invernale che aveva fatto tanto danno alle sue mani che erano state sottoposte ad un lavoro più pesante e completamente diverso in confronto a quello che faceva nel suo paese.

Qualcuno in giro le aveva detto che i lavori che solitamente fanno gli immigrati, come la domestica, la baby sitter, il personale di servizio, il pony… erano attività “umili”, forse perchè la maggioranza degli italiani non vogliono farli.  Ma, in quel momento, Lucero era tanto assorta davanti a quello spettacolo bianco che quelle parole, che  prima l’avevano fatta sentire sottovalutata, ora avevano acquistato un significato diverso: la sua sfida.

Ricordava il suo arrivo in Italia, sei mesi prima, piena di aspettative. Il suo spirito avventuriero, proprio della sua carriera di giornalista, l’aveva motivata a tentare una nuova strada per conoscere una cultura diversa. L’idea di rimanere in una sola città, nello stesso contesto, l’annoiava un po’, per questo aveva deciso di trasferirsi, anche se nel suo Paese svolgeva con successo la sua carriera, stava vicina alla sua famiglia e si sentiva protetta.

Forse la sua motivazione era ben diversa rispetto a quella di alcuni altri immigrati che erano stati praticamente obbligati a lasciare il proprio Paese, asfissiati dai loro problemi economici e stanchi della mancanza di opportunità lavorative. La migrazione ha tante motivazioni; per lei  era una esperienza da provare.

Alla fine, peró, lei sapeva che per alcuni italiani tutti gli stranieri erano nella stessa condizione, quella di essere extracomunitari, avanzi della propria terra. Aveva sentito dire loro… “razza di terza categoria” e per la prima volta Lucero aveva capito il concetto di discriminazione.

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Sul tram che l’avrebbe portata a Monza, Lucero si guardò di colpo le mani che erano rovinate perchè fino ad allora la loro unica fatica era stata quella di scrivere sul computer, mentre ora dovevano essere continuamente disinfettate e lavate prima di accudire la piccola disabile che curava al mattino,  quando la mamma della bimba era in ufficio.

Il lavoro da baby sitter era presso una famiglia italiana, sull’orlo di una crisi di nervi per tutti i loro problemi, ma lei lo aveva accettato con pazienza perchè era cosciente che uno stipendio fisso le avrebbe permesso di cavarsela da sola. Lavorare mezza giornata come giornalista al pomeriggio, presso una casa editrice latinoamericana, non era così bene retribuito.  -“Soltanto per amore dell’arte non si può vivere”-, lo sapeva.

Anche se pesante, lei preferiva avere una lunga giornata lavorativa, piuttosto che accettare quello che più di una volta gli avevano offerto, forse perchè era una giovane donna immigrata.

Aveva già sentito tante storie di ragazze straniere che in cambio di “favori” erano riuscite ad ottenere i soldi facilmente. Quella non era la strada che Lucero voleva seguire ed aveva rifiutato le proposte di essere la compagna di qualche italiano attempato. “Dignitosa, anche se povera”, le aveva detto sua nonna e lei ancora lo ricordava. Povera sua nonna, morí dignitosa.
 
Dopo 50 minuti di strada, Lucero arrivò al lavoro in tempo e la mamma della bimba le diede un saluto secco accompagnato da qualche critica sul lavoro svolto il giorno precedente. La donna era di solito scontrosa; i dissapori della sua vita separata dal marito l’avevano resa acida.  Non si fidava neanche della sua ombra e tanto meno se gli altri erano di origini diverse ed avevano la pelle marrone, quel marrone che paradossamente la signora, bionda e sempre pallida, cercava sotto le lampade da cento Watt.

Tante volte la donna aveva criticato il governo di non frenare l’immigrazione e di non regolarizzare l’ingresso degli stranieri clandestini…  tante volte la bionda si pavoneggiava di essere una cittadina corretta, alla fine, però aveva optato per il “più nero, più bello”. Facendo lavorare in nero le baby sitter scherniva l’inefficenza dei governanti, pensava segretamente.

Comunque, Lucero e lei avevano un tacito accordo. Avevano bisogno una dell’altra e così andavano avanti, provando a capirsi, non solo rispetto alle culture evidentemente diverse, ma anche alla lingua.

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Essendo da poco in Italia, per Lucero parlare fluidamente l’italiano era ancora difficoltoso e si vergognava continuamente. Andava a scuola d’italiano di sera e desiderava intensamente capire meglio la sua nuova lingua, ma cominció ad essere più sicura di sè dalla prima notte che sognò… proprio in italiano. Saranno state soltanto alcune parole scivolate tra i suoi sogni, ma per lei quel fatto era molto significativo.

Sognava anche da sveglia… forse troppo, specialmente quel bel giorno quando avrebbe potuto comunicare perfettamente in quella dolce lingua, ed anche scriverla con scioltezza come faceva in spagnolo da giornalista.

Desiderava tanto pubblicare i suoi articoli in italiano, ma questi sogni le furono spaccati quando un editore italiano le aveva promesso,  in nome dell’integrazione, che le avrebbe aperto le porte del mondo giornalistico italiano e subito dopo aveva insinuato che –carina come era- le avrebbe fatto piacere conoscerla più a fondo.  E per dimostrare che credeva all’integrazione, le aveva recitato in varie lingue straniere “ti voglio bene”.

Quell’editore sessantenne,  multilingue improvvisato, aveva imparato ogni frase da qualcuna delle sue occasionali amanti. Quello era il concetto di integrazione per lui. Questo è il prezzo per essere una professionista straniera? chiese a se stessa Lucero e le sembró uno schifo. 

Avendo 28 anni, lei ancora credeva all’amore vero. Anche se una volta un ragazzo italiano, conosciuto per caso, le aveva fatto capire che –sebbene apprezzavano le latine- gli italiani non sarebbero riusciti a mantenere un rapporto fisso con loro. Consideravano le donne latinoamericane più adatte per il divertimento prima di pensare ad un futuro insieme. Niente impegni! E anche lui affermava di credere all’integrazione.

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-Tutti parlano dell’integrazione, forse perchè è di moda, ma ancora non sono riusciti ad avere degli atteggiamenti coerenti con il bel discorso-, rifletteva Lucero quando la mamma di Martina,  la bimba che curava, era andata via con un gesto amaro e senza rispondere neppure all’augurio di buona giornata. Lucero preferiva pensare che la giornata di neve avesse fatto strage nell’animo della signora.

Invece, il rapporto baby sitter- bambina era bellissimo, sicuramente perchè i bimbi non capiscono le differenze sociali, culturali e tutte quelle regole e pregiudizi che impongono i grandi.

Martina non parlava nè aveva coscienza di se stessa, come conseguenza della sua malattia degenerativa congenita. Comunque si faceva capire con gesti e sorrisi. Lucero sapeva che la sua piccola sarebbe stata molto contenta di vedere il regalo che lei le aveva fatto per i suoi 11 anni, alcuni giorni prima. Purtroppo, la mamma di “Marti” non aveva aperto il pensiero della baby sitter e lo aveva lasciato in giro vicino alla porta di casa, forse per buttarlo via al più presto. 

Passata l’una e dopo aver salutato come al solito la piccola “Marti”, Lucero avrebbe incominciato la sua seconda attività che era la sua vera passione: il giornalismo.

Mentre camminava tra la neve che presto si sarebbe sciolta, pensava alle storie che avrebbe trovato da raccontare quel giorno. Guardava curiosamente i visi della gente in giro, che, come lei, avevano un panino tra le mani per placare la fame e proseguire la giornata lavorativa.

Subito ricordò le persone che fino adesso aveva conosciuto alle quali non bastava un unico lavoro per cavarsela, poichè non erano riusciti ad essere in regola, oppure non avevano trovato un lavoro fisso. 

“Mi pagano meno di un lavoratore italiano e molto meno di un immigrato in regola… questa è una forma di discriminazione e io la vivo”,  le aveva detto un egiziano che non voleva dare il suo nome nè mostrare il suo viso,  giacché preferiva il completo anonimato, forse perchè lui, come tanti altri, era stato abituato ad essere sempre nell’ oscurità… “in nero”.

Per Leonor Rodriguez, peruviana di 60 anni, la vita era completamente cambiata dopo che aveva lasciato il suo paese e soprattutto la sua famiglia:  “Mai avrei pensato di lavorare così, con uno stipendio misero per un lavoro molto pesante…  credo che ci siano più opportunità  per gli immigrati giovani e regolari”.  Lei, come parecchi altri stranieri, aspettava con ansia il momento di tornare a casa anche se questo desiderio si scontrava con i suoi progetti di miglioramento personale ed economico per i quali aveva lasciato il suo paese.

Anche l’ecuadoregna Catalina Angüisaca le aveva manifestato, basandosi sulla propria esperienza, che rispetto a quanto accade negli Uniti Stati e nel resto d’Europa, in Italia non esiste una reale coscienza sul potenziale dell’immigrazione anzi, gli stranieri sono spesso coinvolti in fatti  inerenti l’ordine pubblico.

Il figlio dell’ecuadoregna, di 30 anni, era stato mandato via perchè non aveva i documenti per rimanere in Italia. Era stato scoperto dal carabiniere a guidare senza patente il furgone del lavoro. Quell’impiego lo aveva trovato alcuni mesi prima, dopo un lungo periodo senza lavorare poichè non possedeva il permesso di soggiorno.

Il giovane era cosciente di aver trasgredito le regole da quando era rimasto in Italia con un visto da turista scaduto. Ma era anche vero che lui non aveva avuto un’alternativa da quando avevano imposto tante barriere per potere immigrare in Europa.

Riuscire ad avere un visto per entrare nell’Unione Europea è così tanto difficile per gli extracomunitari che spesso optano per la via irregolare, tramite il percorso più complesso da immaginare. Ciò nonostante, lui non aveva avuto necessità nè di cambiare identità nè di comprare un passaporto falso oppure fare un viaggio a pagamento perchè era riuscito ad ottenere un visto di turismo, un po’ per fortuna, un po’ per strategia. Infatti, qualche conoscenza gli aveva dato una mano per essere accettato all’Ambasciata Italiana del suo paese.

“Se non esistessero tante barriere per immigrare, chissà, sarebbe più semplice essere in regola in Italia e lavorare tranquillamente”, le disse Catalina, con il cuore di mamma spaccato nel sentire il figlio lontano ed umiliato soltanto per avere voluto tentare fortuna in un altro paese. “Se si comprendesse che il mondo è di tutti…”, affermò con voce abbattuta la mamma che ora aveva la sua famiglia  disintegrata.

Insomma, Lucero aveva tante storie da raccontare, che insieme alle notizie di attualità, erano inserite nel giornale e nella rivista che redigeva con i suoi colleghi latini.

Al suo ufficio arrivava in fretta e cominciava a fare la giornalista, così come aveva fatto negli ultimi 7 anni nel suo paese. Lucero sentiva di avere una doppia vita, al mattino faceva la baby sitter ed al pomeriggio quello che più le piaceva svolgere. All’aurora era un’immigrata che tante volte era stata sottovalutata ed al tramonto aveva la possibilità di dare la parola a coloro che, come lei, vivevano i contrasti della immigrazione.

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Tanti contrasti…come quel giorno, quando Lucero, decisa ad introdursi nel giornalismo italiano, si presentò in una casa editrice  e propose i suoi servizi. La capo redattrice, tutta incredula, la guardò in faccia e le chiese:
-Ha già lavorato con qualche casa editrice italiana?
– Da quando sono in Italia lavoro presso una casa editrice latinoamericana; sono specializzata nel trattare i temi dell’integrazione e dell’immigrazione… faccio anche la collaboratrice di una associazione culturale italio- peruviana che pubblica i miei articoli su internet.
-Ho capito!… Sul suo curriculum vedo che è stata docente universitaria nel suo Paese…
– Sí, sempre nel campo del giornalismo.
-Uhmmm. E perchè è venuta in Italia?
– Perchè credo nell’integrazione e l’Italia mi sembrava essere un Paese accogliente per gli immigrati.
-Se è convinta Lei…  fra un po’, però, le leggi sull’immigrazione saranno ancora più rigide. Si fidi!
La capo redattrice italiana, che aveva fatto una previsione per niente irreale, chiuse l’appuntamento così, non senza prima pronunciare l’abituale frase “la chiameremo…”, con gentilezza ma con la certezza che mai lo avrebbero fatto.

Lucero capì subito, nonostante ciò non mollava. Era proprio testarda come una capra montanara e provò con altre casa editrice, sperando che qualcuna fosse stata sufficientemente “aperta” per accetare una collaboratrice straniera. 

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Con la macchina fotografica ed il registratore nella sua borsa, Lucero uscì quel pomeriggio, particolarmente speciale per la nevicata ancora persistente, che, però, non aveva frenato la sua attività giornalistica.

La notizia del giorno era quella di una badante rumena, di 54 anni, che era stata tenuta come una schiava dalla sua “padrona”, una pensionata vedova di 75 anni che l’aveva sotto controllo tramite un circuito interno di telecamere per monitorare ogni spostamento.

La doccia le era permessa al massimo una volta al mese, con il sapone da bucato e l’acqua fredda. A pranzo, gli avanzi. A cena, quasi niente. Stipendio, neanche a parlarne.

La collaboratrice domestica, presa dall’incubo, non aveva mai tentato di scappare per paura di essere riportata al suo paese, poichè la pensionata non le aveva rivelato che da oltre un anno la Romania fa parte dell’UE e, quindi, non correva rischio di ricevere un foglio di via.

I carabinieri erano riusciti a trovare la bandante tramite la denuncia di sparizione che i connazionali, preoccupati per lei, avevano fatto. La pensionata di Lainate era stata arrestata per il reato di riduzione in servitù e potrebbe passare in prigione 8 anni, come minimo. Intanto, la badante ha potuto riabbracciare con emozione la  figlia, dopo un anno.

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Sulla strada, ritornando all’ufficio, la giovane giornalista sentí un urlo d’allerta… un rapinatore aveva tirato fuori la macchina fotografica dalla sua borsa. Non aveva avuto il tempo di reagire ma era riuscita soltato a vedere un piccolo zingaro che correva e già aveva girato l’angolo. Lucero aveva perso tutto il materiale informativo raccolto quel giorno che, per lei, era quello che rendeva unica e più di valore la sua macchina.

Anche lei si sentiva persa, così come la sua macchina fotografica, senza sapere cosa fare nè come giustificare la sua negligenza davanti al suo capo. Ma quando raggiunse la stazione del metrò vide per caso uno dei ragazzini rom che una volta era stato protagonista di un servizio che aveva pubblicato. Il merito era stato quello che il piccolo “camminante” era riuscito ad andare a scuola, smettendo così di rubare. Romualdo, il ragazzino rom, l’ aveva riconosciuta:

-“Ciao amica!”-, le disse e Lucero pensò di avere una speranza per recuperare la sua macchina tramite il ragazzino che ben conosceva i suoi ex “colleghi” di rapina. Infatti, a Romualdo bastarono alcune chiamate sul telefonino e dopo un po’ ritornò con la macchina rubata e, senza neanche saperlo, con un bell’insegnamento per Lucero.

–A volte facciamo davvero male a generalizzare-, rifletteva la ragazza mentre ringraziava Romualdo per il suo gesto. Adesso, tornava finalmente in ufficio per riprodurre il materiale giornalistico raccolto.

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“Certo, quello di generalizzare le persone per la loro provenienza è una malattia tanto comune. Anche noi, italiani, siamo stati vittime della generalizzazione e dei predugizi in confronto con l’UE”, le disse un ex direttore di banca, adesso pensionato, che in giro per il mondo aveva raccolto personalmente quella percezione.

Questa esperienza del suo anziano amico catturava l’attenzione di Lucero che con più facilità faceva amicizia con persone più grandi invece dei ragazzi della sua età, forse perchè cercava il consiglio e l’affetto del padre che non aveva mai conosciuto. 

Siccome la vita compensa di quello che non si ha, in quegli anni, però, aveva incontrato la vera amicizia di persone maggiori di lei che la vedevano come una figlia e, per questo, erano i suoi angeli custodi e consiglieri disinteressati. Senza la sua famiglia vicina, la vera amicizia, che incominciava a costruire in Italia, era la principale forza che Lucero aveva. 

Non erano in tanti, ma erano veri. Quei cari amici della ragazza mitigavano i dissapori che le provocavano quegli italiani che pretendevano di prenderla in giro per essere una giovane donna immigrata.

Ogni tanto passava belle serate a chiacchierare con i suoi amici dai capelli grigi. Mangiavano, ridevano e facevano riferimento alla cultura italiana che lei voleva conoscere più a fondo. Per quello, quando poteva, prendeva lo stesso zaino con il quale era arrivata in Italia e girava attraverso i paesini che ancora conservano i costumi del Belpaese. Così, con quello spirito avventuriero e viaggiatore, equilibrava le lunge giornate lavorative che, anche se erano una sua scelta, affaticavano la nuova immigrata.

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Quando uscì dal suo ufficio, il buio era già arrivato e Lucero ritornava a casa, esaurita, con il pensiero alla giornata appena trascorsa e a tutti quei protagonisti che nella loro vita cercano intensamente, come lei, di raggiungere i propri sogni.

Sbucó dal metrò, senza fretta arrivò alla fermata del pullman, ma si fermò a una bancarella; non aveva voglia di tornare a casa, dove –anche se erano in tanti- nessuno l’aspettava.

Cercando di proteggersi dal freddo fece scivolare la sua mano in tasca e, in fondo, trovò un cioccolatino fondente dimenticato che le fece pensare che la vita era come quel fondente, ogni tanto amara…ogni tanto dolce.

Improvvisamente lo squillo del suo telefonino la fece sobbalzare. La chiamavano da una delle case editrici dove aveva presentato alcuni dei suoi articoli, per informarla che uno sarebbe stato pubblicato nella prossima edizione di una rivista italiana.  Lucero chiuse il telefonino e, con il sorriso in faccia, diede un morso al cioccolatino. Aveva assaggiato qualcosa di dolce.

Angela Roig Pinto
anyiroig@yahoo.com


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angelaroigbig.jpgAngela Roig Pinto è una giovane giornalista peruviana.

Si dedica al giornalismo dal 2000, prima in patria, come reporter e docente universitaria, quindi in Italia, dove è arrivata nell’agosto del 2007 motivata dalla voglia di conoscere nuove culture.

Attualmente è corrispondente del giornale peruviano Correo e capo redattrice di Editoria Latinoamericana (con sede a Milano), che produce le testate: la Guia Latina (www.guialatina.it), la rivista Comunidad Latina (www.comunidadlatina.it) e il giornale ExtraLatino (www.extralatino.com).

Collabora con riviste italiane di racconti di viaggio e diversi siti web italiani dedicati all’integrazione e alla multiculturalità, argomenti nei quali è particolarmente impegnata. Come socia onoraria dell’associazione culturale Peruanità www.peruanita.org partecipa alle iniziative di promozione culturale della comunità peruviana in Italia.

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