Uno sfogo dolce e amaro al tempo stesso, che non mancherà di aprire al lettore meravigliosi spazi sconosciuti
“Volevo narrare una parte del mio mondo: il Monzambico. Ma sentivo anche il bisogno di condividere la storia difficile di una donna cattolica vissuta all’ombra di un marito musulmano di 12 anni più vecchio di lei e della sua seconda giovane moglie”. Amilca Ismael, scrittrice, presenta il suo nuovo romanzo: il racconto di Nadia.
Era una notte calda di febbraio. Mi trovavo sul volo 775 proveniente dal Mozambico e diretto a Lisbona.
Ero in attesa della partenza, quando una ragazza alta dai capelli ricci e una carnagione caffelatte occupò il sedile accanto al mio. Mi colpirono subito i suoi occhi neri impreziositi da lunghe ciglia. Aveva una corporatura snella e atletica, indossava una maglietta a righe e dei jeans, e ai piedi portava un paio di mocassini neri.
«Ciao, mi chiamo Nadia» mi disse dopo solo mezz’ora di volo.
«Ciao, io mi chiamo Elisa» le risposi con simpatia. Nadia era, come me, una ragazza mozambicana e si era trasferita a Lisbona diciotto anni prima.
All’inizio parlammo di tutto un po’, delle nostre rinunce, della nostra nuova vita in Europa, del Mozambico e di come era cambiato nel corso degli anni. A questo proposito Nadia, quindici anni più vecchia di me, la sapeva lunga perché lei aveva vissuto tutta la sua infanzia e una buona parte della adolescenza durante il periodo coloniale, mentre io avevo vissuto la maggiore parte della mia vita nel Mozambico indipendente e molte cose sul colonialismo portoghese non me le ricordavo più. In breve le raccontai della mia infanzia, dei miei amici e dei miei ricordi da bambina. Notai però che a quel racconto Nadia cambiò espressione, guardò in giro, si spostò avanti, poi indietro, e improvvisamente si innervosì.
«C’è qualcosa che non va?» le chiesi preoccupata per quel suo improvviso cambiamento di umore
«Come ti sentiresti se a quarant’anni venissi a sapere la vera storia dei tuoi genitori? E che tutto quello che conoscevi era solo una menzogna, niente di più che una menzogna?» mi disse Nadia prima di incominciare a raccontarmi la storia di sua madre.
Nel silenzio della notte sento ancora la sua voce che racconta dettagliatamente quella storia, una storia straordinaria che sconvolse in un certo senso la mia vita. La sento e la rivedo come fosse un film, ricordo ancora i suoi occhi gonfi di pianto quando descrive alcuni passaggi drammatici o le sue labbra sorridenti quando parla di suo fratello Ussen.
«La mia storia è lunga, abbiamo circa dieci ore» disse «ma perché tu capisca te la devo raccontare dall’inizio, dal 1951» aggiunse guardando l’orologio.
Si tolse gli occhiali, si strinse gli occhi con l’indice e il pollice e restò così per un momento. Afferrò un sacchetto di plastica dalla tasca del sedile davanti a lei e ne tirò fuori una copertina azzurra di lana con lo stemma della Tap, la linea aerea portoghese, si tolse le scarpe, allungò le gambe e si coprì fino al collo. Iniziò il suo lungo racconto.
Tutto iniziò quando due settimane fa domandai a mia madre come aveva fatto ad accettare che mio padre sposasse un’altra donna.
Fino a quel giorno per me era normale che mio padre avesse due mogli, forse sarebbe stato normale anche se ne avesse avute tre o quattro. Allora ero piccola e di uomini non capivo nulla. In quell’epoca era tutto normale per me, la mia vita e quella dei miei fratelli era straordinaria, eravamo felici comunque, nessuno di noi si chiedeva come fosse possibile quel “triangolo” creato da mio padre e a nessuno importava che mio padre saltasse da un letto all’altro, infatti un giorno mangiava e dormiva con mia mamma il giorno successivo mangiava e dormiva con l’altra moglie. Era anche normale che lui ci facesse chiamare mamma anche l’altra moglie, o che la mia vita spirituale fosse stata vissuta fra Dio e Allah.
Per un attimo mi pentii di aver fatto quella domanda, non mi andava di rovinare quella giornata stupenda con il questionario sulla vita privata di mia madre – disse Nadia con rammarico – avrei voluto che non rispondesse più. A un tratto ero terrorizzata della verità, ebbi la sensazione dallo sguardo triste di mia madre che quella storia accantonata in qualche angolo del suo cuore avrebbe scombussolato completamente la mia vita. La verità forse mi avrebbe fatto molto male.
Ma le cose non andarono così, poiché mia madre era più intelligente e più saggia di me, capì al volo che io ero più imbarazzata di lei, continuava a sorridermi ma non diceva nulla, il silenzio durò ancora per circa cinque minuti; in quel lasso di tempo si pulì il naso, si grattò la testa, si mosse spostando il sedere a destra e a sinistra come a cercare la posizione più comoda.
Alzò il bicchiere di birra, lo portò alla bocca e fece un bel sorso, poi passò la lingua sulle labbra come per gustare la schiuma, appoggiò accuratamente il bicchiere sul tavolino di fianco e mi guardò dritto negli occhi, c’era qualcosa di diverso in lei e io mi pentii per la seconda volta di aver fatto quella domanda. Notai che la sua fronte era sudata, gocciolava quanto il suo bicchiere di birra.
Prima che mia madre iniziasse il racconto chiusi gli occhi e pensai. Pensai a mio padre, ai miei fratelli, alla mia infanzia, alla mia scuola primaria, al Mozambico e a come esso era prima e dopo l’indipendenza.
Capii che il mio destino e quello dei miei sette fratelli era iniziato molto prima che nascessimo e che questa storia era già stata scritta nel lontano 1951, quando mia madre scappò con mio padre a soli sedici anni.
Mia mamma era dodici anni più giovane di mio padre ed era di religione cattolica.
Era nata nelle bidonville dei sobborghi neri di Lourenço Marques. Sua madre era una povera ragazza madre che per mantenere i suoi quattro figli faceva la cameriera presso ricchi signori bianchi.
Le case non erano granché, erano per la maggiore parte fatte di mattoni con il tetto di zinco, alcuni erano di paglia, e altre erano delle capanne rotonde con il tetto anch’esso rotondo; solo alcuni bianchi avevano delle belle villette,alcune con piscina. A Matola le strade erano per la maggiore parte di terra battuta, quelle poche vie asfaltate che esistevano erano nelle zone residenziali dei bianchi. Nelle zone limitrofe abitate per lo più da negri, indiani, meticci nonché da cinesi le vie erano polverose con delle buche che si riempivano d’acqua piovana appena c’era un temporale, cosa che succedeva spesso. Le piogge rendevano impraticabili le strade e questo portava dei notevoli disagi alla popolazione che occupava lo scalino più basso nella società portoghese
A scuola veniva insegnata anche religione, ma mio padre, come del resto tutti i genitori musulmani, aveva proibito categoricamente ai figli di partecipare a quelle ore di lezione. Tutti i bambini musulmani uscivano dalla classe nell’ora di religione tranne io, la storia di Gesù mi affascinava a tal punto da disobbedire ai suoi ordini, e a sua insaputa frequentavo le lezioni di religione con molto entusiasmo.
Uno dei ricordi, anche se un po’ annebbiato, che ho di mio padre è di una persona estremamente severa soprattutto con le figlie femmine
Molte volte mi veniva da pensare che mio padre avesse due personalità. Con la famiglia agiva da padre padrone ma con gli estranei cambiava completamente atteggiamento.
In fondo mio padre era buono e aveva un cuore grande, ma non riusciva a manifestare la sua bontà in famiglia, a casa lui voleva dimostrare di essere duro e pretendeva una certa disciplina. Fuori casa mio padre era un angelo.
Gli anni Ottanta furono un periodo molto critico per il Mozambico dilaniato dalla guerra civile, combattuta fra il governo e la Renamo, un partito anti- comunista sostenuto dal regime d’apartheid del Sudafrica nato nel 1975, nello stesso anno in cui il Mozambico ottenne l’indipendenza dal Portogallo. Questo conflitto non solo portò la distruzione, ma anche la fame, trasformando così il Mozambico in uno dei paesi più poveri al mondo
In quegli anni aumentò vistosamente la possibilità di morire di fame, i vecchi e i bambini furono i primi ad accusare la mancanza di cibo, dimagrirono a tal punto che non serviva loro una radiografia per vedere le costole. La gente aveva fame e per mangiare iniziò a rubare. I poveri rubavano ai poveri e la polizia non interveniva, allora la popolazione decise di farsi giustizia da sola. Chi veniva sorpreso a rubare veniva bruciato:
Fu sempre in quel periodaccio che in Mozambico ebbe inizio un nuovo fenomeno “il sesso facile e la prostituzione minorile”.
La bella vita promessa da alcuni cooperanti portò molte ragazze, anche di buona famiglia, a prostituirsi.
[…continua]
Amilca Ismael è nata a Maputo, in Mozambico, nel 1963, sesta di otto figli. Ha studiato al liceo scientifico e ha lavorato presso un’azienda internazionale. Si è trasferita in Italia nel 1986. Dopo tanti lavori precari ha deciso di diplomarsi come assistente per gli anziani e ora lavora presso una casa di riposo.
Dopo il grande successo della “Casa dei ricordi” che ha vinto numerosi premi letterari, Amica è tornata con un nuovo romanzo “il Racconto di Nadia”.
Per maggiore informazioni su Amilca Ismael e il suo romanzo consulta il suo blog amilcaismael.wordpress