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Musulmani in Europa

Intervista a Souad Sbai, direttrice del mensile Al Maghrebiya e presidentessa dell’associazione delle donne delle comunità marocchine in Italia (ACMID-Donna)

Pubblichiamo il testo dell’intervista rilasciata da Souad Sbai alla rivista italiana di geopolitica LIMES
Signora Sbai, si può parlare di un Islam europeo?
Se per "Islam europeo" si intende una comunità immigrata coesa, dotata di propri organi rappresentativi unitari e di un’agenda politica comune, la risposta è assolutamente negativa. E lo è in quanto tale unità non esiste nemmeno a livello nazionale. Ciò che spesso si dimentica infatti, è che negli stessi luoghi d’origine della cosiddetta immigrazione islamica, l’Islam si declina in senso fortemente nazionale, assumendo caratteristiche specifiche da paese a paese. Del resto, sarebbe quanto meno singolare se il miliardo di musulmani così spesso evocato dai media occidentali si conformasse ad una pratica religiosa unitaria, senza subire l’influenza dei molteplici contesti culturali propri dei singoli paesi in cui l’Islam è presente.

Se non l’elemento religioso, qual è dunque la componente identitaria principale della presenza islamica in Europa?
Senza dubbio la nazionalità d’origine: questa è la chiave di volta per comprendere la molteplicità degli Islam europei e nazionali. In Italia, per esempio, gli islamici che frequentano la moschea sono circa il 5% del totale. Di questi, tuttavia, i frequentatori regolari e assidui sono a loro volta una piccola minoranza, pari forse allo 0,5% del totale. All’interno di questa, poi, sono solo alcuni -stimabili in circa un migliaio-gli individui potenzialmente sensibili al richiamo fondamentalista. Cosa fa il restante 95%? E’ una maggioranza silenziosa, scarsamente visibile proprio perché sostanzialmente laica nel suo stile di vita, il cui obiettivo principale è assicurare un futuro a sé stessa e ai propri figli. Una presenza che spesso si mostra refrattaria persino alle forme di associazionismo locale, figuriamoci nazionale.

Da tale quadro l’influenza e rappresentatività delle associazioni islamiche italiane ne esce fortemente ridimensionata…
Su questo argomento occorre essere onesti. Io stessa, da vicepresidente della Comunità Marocchina in Italia, non posso che costatare il sostanziale fallimento dell’associazionismo islamico in Italia, che finora non è riuscito a superare le molte differenze e diffidenze che dividono le comunità islamiche italiane. Tanto più che l’associazionismo ha prodotto risultati inferiori alle attese anche in paesi con una presenza islamica molto vasta, come la Francia, stante appunto l’estrema eterogeneità culturale dell’immigrazione islamica, che male si presta ad etichettature politico-istituzionali.

Questo vale anche per le associazioni islamiche più grandi?
Paradossalmente, sono proprio le associazioni più grandi che rischiano di essere le meno rappresentative, in quanto spesso beneficiano di sovvenzioni e finanziamenti esterni cui però può non corrispondere una vasta base sociale e un sufficiente radicamento nel territorio. Del resto, il tradizionale bacino di riferimento di tali associazioni è rappresentato dai luoghi di culto. Ora, data l’esiguità del numero di islamici che in Italia frequenta assiduamente la moschea, sorgono seri dubbi sulla reale consistenza delle associazioni che pretendono di parlare a nome dell’Islam italiano. Ammesso poi che questo esista davvero, date le suddette differenze culturali cui sovente si associano notevoli gap nel livello d’istruzione.

In che modo nazionalità e livello d’istruzione si legano?
L’immigrazione islamica in Italia segue i meccanismi tipici di ogni altra dinamica migratoria. Fra essi vi è la tendenza da parte di persone provenienti dalla stessa area ad emigrare nello stesso posto, usando i legami che li univano in patria come garanzia di mutua assistenza nel paese straniero. Questa circostanza fa si che nel caso dell’emigrazione islamica -principalmente magrebina-verso l’Italia vi sia una certa corrispondenza fra luogo d’origine e livello culturale dell’immigrato. L’esempio più lampante è quello dell’ immigrazione marocchina ed algerina, prevalentemente analfabeta quando proviene da aree rurali, più istruita quando proviene da aree urbane.

A fronte di un contesto così frazionato, che ruolo ha l’Europa nell’evoluzione della presenza islamica in Europa?
Un ruolo che non va molto oltre quello di contenitore geografico di tale presenza. Se parliamo di Europa in senso istituzionale -l’Unione Europea-finora da essa non è venuto alcun input politico e culturale che non sia venuto prima dai nostri paesi d’origine. Prenda il caso della recente riforma del diritto di famiglia (Mudauana) in Marocco: un evento che, in quanto marocchina, non esito a definire epocale, in quanto per la prima volta avvicina i diritti della donna a quelli dell’uomo in ambito familiare. Mi sarei attesa che l’Unione Europea svolgesse un ruolo attivo nel dare impulso, dall’esterno, a tale profondo cambiamento, date le notevoli ricadute che esso può produrre sulla forte presenza marocchina in Europa, ma così non è stato. Come soggetto politico, l’Europa svolge il ruolo di passivo recettore dell’immigrazione islamica. Tutt’al più sono i singoli stati membri dell’Unione Europea ad adottare politiche specifiche verso tale fenomeno.

Secondo lei, esiste in Europa un Dar al Islam dai confini definiti?
No. Per la stragrande maggioranza dell’immigrazione islamica in Europa -l’Italia non fa eccezione al riguardo-la distinzione fra Dar al Islam e Dar al-Harb non ha molto senso. Nella sua scelta di emigrare e nel suo comportamento nel paese ospite, l’islamico è molto più pragmatico di quanto l’opinione comune e i mass media occidentali tendano a pensare. Egli guarda ad elementi concreti: le possibilità di lavoro, la facilità di inserimento sociale, l’eventuale presenza di una comunità del suo paese d’origine che lo possa sostenere, le chance di ascesa sociale per sé e, soprattutto, per i propri figli. Che poi tutto ciò configuri un contesto accogliente da etichettarsi come Dar al Islam o Dar al-Sulh, è secondario. Il concetto di Dar al Islam riguarda molto più le élite politiche degli stati arabi che non gli immigrati islamici in Europa. Per quanto attiene all’Italia poi, la gran parte dell’immigrazione islamica proviene dal Maghreb, da paesi di tradizione malachita lontani dalle evoluzioni estremistiche del wahabbismo mediorientale.
Infine, non penso che le èlite politiche dei paesi islamici riescano ad influire più di tanto sulle rispettive diaspore, perché a tal fine dovrebbero sussistere presupposti che in realtà sono assenti.

A che si riferisce?
Mi riferisco al fatto che il legame fra la maggior parte degli islamici emigrati e i rispettivi paesi d’origine è un legame soprattutto culturale, non già politico-istituzionale. L’islamico che emigra porta con sé una cultura da cui stenta a separarsi, ma per il suo contesto d’origine egli, dopo pochi anni dalla partenza, è già uno straniero, in quanto percepito non più parte dell’ambiente che ha lasciato.
Senza contare, poi, che la seconda generazione -ovvero quella nata nel paese ospite-tende, di norma, ad essere totalmente assimilata.

Come si concilia ciò con la forza delle culture d’origine di cui parla?
Non benissimo, in verità. Il fatto è che la forte componente culturale si scontra con la volontà di assimilazione che, se frustrata nei genitori (prima generazione di immigrati) si riversa sui figli. Il caso dell’Italia è emblematico. La seconda generazione di immigrati islamici in Italia è completamente italiana: non italianizzata, ma italiana a tutti gli effetti, e dunque sostanzialmente aliena sia ai condizionamenti culturali del paese d’origine, sia al richiamo esercitato da quelle organizzazioni che tentano di ricreare artificialmente un’identità islamica che, nella maggior parte dei casi, rimane confinata alla prima generazione.

Cosa pensano gli islamici dell’Italia e di noi italiani?
In generale, l’Italia è considerata molto più accogliente e propensa al dialogo con la cultura islamica di quanto non siano altri paesi, come per esempio il Belgio o la Francia. Da questo punto di vista gli italiani hanno fatto passi da gigante negli ultimi decenni, sebbene non manchino manifestazioni di diffidenza e a volte ostilità. Non parlo in base al luogo comune degli "italiani brava gente", ma all’esperienza concreta dei molti islamici che vivono in Italia e nel resto d’Europa e con i quali ho spesso modo di confrontarmi.

A cosa pensa sia dovuta questa differenza?
Da un lato a caratteristiche culturali e storiche. Se molti italiani scontano ancora un certo provincialismo, una mancanza di conoscenza delle diverse culture che li rende, appunto, diffidenti verso queste, credo che l’assenza di una prolungata esperienza coloniale in paesi islamici li renda tendenzialmente meno razzisti, meno propensi a percepirsi diversi e "superiori" rispetto all’immigrato islamico.
Inoltre, la presenza islamica in Italia-seppur ancora numericamente minore rispetto a quella francese o tedesca-è cresciuta notevolmente nel tempo, comportando un progressivo aumento dei contatti fra italiani e islamici. Specialmente sul posto di lavoro, questo fa si che l’islamico non venga percepito come un’entità astratta da temere, ma come una persona. Ed è qui che, rispetto ad altre nazionalità, l’italiano si rivela di solito più collaborativo e rispettoso dei tuoi pregi umani e professionali.

L’11 settembre 2001 ha influito su questa situazione?
Purtroppo si, e in misura abbastanza rilevante. Negli ultimi due anni e mezzo ho notato un notevole aumento della diffidenza nei nostri confronti; una diffidenza diffusa, non legata a fatti specifici che coinvolgano il singolo islamico. Questo ha reso senz’altro la vita più difficile a molti islamici in Italia, specialmente a quelli di recente ingresso, che ancora non padroneggiano bene la lingua e le abitudini locali e, dunque, sono più facilmente etichettabili come "islamici". Tuttavia, ciò non mi impedisce di essere ottimista nel medio periodo.

In che senso?
Nel senso che, a mio modo di vedere, la fase "problematica" che stiamo attraversando è provvisoria, e destinata a rientrare una volta che gli echi dell’11 settembre e delle stragi di Madrid si attenueranno.

Il che, per inciso, potrebbe non essere domani: la situazione irachena è ancora lontana dallo stabilizzarsi, e non è affatto detto che il marasma mediorientale e la guerra al terrorismo non producano altri lutti che ci tocchino più o meno direttamente…
E’ vero, il rischio è altissimo, ma io confido abbastanza nella corta memoria che caratterizza questo paese. Quella italiana è un’opinione pubblica piuttosto propensa a dimenticare il passato, o comunque a non tenerne conto in misura tale da farsi condizionare totalmente nei propri comportamenti. Questo può essere considerato un difetto, ma a volte rappresenta un grande vantaggio. E poi, in un certo senso, la guerra in Iraq ha parzialmente riequilibrato la situazione.

In che modo?
Vede, se con l’11 settembre alcune componenti del mondo islamico si sono macchiate agli occhi dell’Occidente di colpe imperdonabili, la disastrosa conduzione della guerra irachena ha in parte ribaltato le prospettive. Dall’inizio della campagna militare, e ancor più oggi alla luce delle rivelazioni sulle torture, vedo crescere in molti islamici un forte risentimento contro i protagonisti del conflitto, in primo luogo gli Stati Uniti…

…e l’Italia…
Si, e infatti, ripeto, non sottovaluto il rischio che questo stato di cose comporta. Però, nell’ottica delle dinamiche interne ai paesi di rilevante immigrazione islamica, un seppur parziale miglioramento della situazione in Medio Oriente potrebbe costituire la base di una reciproca autocritica: alcuni settori del mondo islamico hanno commesso un errore madornale; alcuni fra gli stati occidentali hanno finito per fare altrettanto, seppur con scopi e modalità diverse. Da qui, si può ripartire. Ma per fare ciò, serve una vera politica verso l’immigrazione islamica in Italia, che finora è mancata.

Quest’ultima affermazione ci porta dritti al tema del rapporto fra immigrazione islamica e istituzioni italiane. Quale pensa siano le principali problematiche degli islamici in Italia? Quale il contributo che Governo e Parlamento possono dare alla loro risoluzione?
La prima e più grande problematica è rappresentata dall’estremo frazionamento cui ho più volte fatto riferimento. Entro certi limiti è un fattore ineliminabile, diretta conseguenza dell’eterogeneità che caratterizza la presenza islamica in Italia. Il problema sorge laddove, complice la pressoché totale assenza fino a tempi recenti di una seria politica dell’immigrazione, si è avuta una proliferazione incontrollata di organismi e centri di culto. Fin quando l’Islam in Italia era una presenza trascurabile, ciò non rappresentava un problema e, anzi, poteva essere vantaggioso, in quanto impediva agli islamici di fare fronte comune e avanzare rivendicazioni.

Ed oggi?
Oggi, questa atomizzazione impedisce la formazione di interlocutori islamici dotati dell’autorevolezza necessaria ad interagire proficuamente con il governo. Parallelamente, preclude a quest’ultimo un capillare controllo della galassia islamica e degli estremismi che, sebbene assolutamente minoritari, si annidano in essa. Ciò finisce dunque per danneggiare tutti: tanto l’Italia che gli islamici.

Più che la mancanza di diritti ed opportunità, lei lamenta dunque la mancanza di una linea politica chiara ed univoca verso l’immigrazione islamica.
Esattamente. Negli ultimi anni, sul fronte dei diritti verso gli stranieri l’Italia ha fatto passi da gigante, si pensi per esempio al dibattito sul voto agli immigrati, assente in molti paesi europei. Quello che manca è una strategia politica di lungo respiro verso l’immigrazione islamica, e la capacità di gestione e controllo di questa che ne deriverebbe.

Vi sono altre problematiche principali?
Essenzialmente lo scarso livello d’istruzione di molti immigrati islamici -con tutti i problemi in termini di integrazione ed opportunità che ne derivano-e la scarsa conoscenza dell’islam da parte non solo dell’opinione pubblica, ma anche di molti "addetti ai lavori", che spesso parlano e scrivono di Islam senza saperne granché.

Sulla base di tutto ciò, quale sarebbero i punti principali di un’ipotetica agenda politica degli islamici in Italia?
Punto primo, la creazione di una Consulta in grado di dare veste unitaria alla rappresentanza islamica in Italia. Non l’ennesimo gruppo che si pretende rappresentativo di tutti gli islamici, bensì un team di giuristi, teologi, storici, sociologi, insomma di studiosi da affiancare alle organizzazioni esistenti, persone che conoscano bene l’Islam italiano e ne sappiano operare una sintesi in sede istituzionale.
In secondo luogo, una politica di massiccia alfabetizzazione degli immigrati di più basso livello d’istruzione e una contestuale azione di divulgazione -soprattutto nelle scuole-dell’Islam, che ne incrementi sostanzialmente la conoscenza presso la popolazione italiana.
Infine, un’azione diplomatica forte da parte dell’Italia per arrivare al riconoscimento del cosiddetto diritto di reciprocità, per il quale i paesi d’origine devono accordare ai loro cittadini emigrati -soprattutto donne-gli stessi diritti accordati loro dai paesi ospiti. La riforma del Mudauana in Marocco è un evento importantissimo, ma come marocchina avrei preferito che l’Italia mi avesse concretamente sostenuto nella mia aspirazione a veder pienamente riconosciuti i miei diritti coniugali anche nel mio paese d’origine. Anche alla luce del positivo effetto deterrente che simili provvedimenti, di forte impatto culturale, possono avere sui focolai integralisti delle comunità islamiche europee e sulle componenti culturali più retrograde dei futuri immigrati di fede islamica.

Crede che siano obiettivi realistici?
Sono convinta di si. In parte perché fino ad ora l’integrazione ha proceduto in maniera sostanzialmente positiva, e in parte-o forse soprattutto-perché il costante incremento della presenza islamica in Italia pone sfide difficilmente eludibili nel presente e, ancor più, nell’immediato futuro.


Souad Sbai

 

(18 giugno 2004)

Fabrizio Maronta

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